Trump, Milei e il continente americano sottosopra

I due sono alleati e vogliono rifare grandi l’America e l’Argentina, ma con idee opposte sull’economia e a parti inverite rispetto alla tradizione politica dei due paesi: Peronista l’americano, reaganiano l’argentino

I due sono amici, alleati contro la “sinistra” e l’ideologia “woke”, hanno in comune anche la capigliatura bizzarra. Entrambi vogliono far tornare grandi l’America e l’Argentina, ma seguendo strade diverse: sull’economia Donald Trump e Javier Milei, per quanto vengano assimilati come esponenti della destra mondiale, sono agli antipodi. Per certi versi, entrambi hanno ribaltato la tradizione che i rispettivi paesi occupano nella storia della politica economica. Peronista il candidato repubblicano alla Casa Bianca, reaganiano il nuovo inquilino della Casa Rosada. Trump l’argentino e Milei l’americano. Il continente americano è sottosopra.

In uno dei suoi ultimi comizi in Nord Carolina, Trump ha detto che “dazio” è la parola più bella che esista, dopo “religione” e “amore”. Un concetto che è impensabile sentire dalla bocca del libertario Milei, che invece si è presentato agli elettori argentini promettendo che si sarebbe tagliato un braccio piuttosto che alzare le tasse. Trump, invece, ha fondato la sua campagna elettorale sull’aumento delle tasse sulle importazioni: tutto il suo piano fiscale si basa su una tariffa base del 10-20% sulle importazioni da tutti i paesi e del 60% su quelle dalla Cina.

Secondo le proiezioni del Peterson Institute, questo piano comporterebbe un aumento delle tasse sulla famiglia tipica americana di circa 2.600 dollari all’anno. È vero che Trump ha proposto una riforma fiscale che combina l’aumento dei dazi con la riduzione delle altre tasse. Ma ha anche promesso che perseguirebbe l’aumento dei dazi anche senza il consenso del Congresso, perché è un bene di per sé. E, come ha calcolato la Tax Foundation, il piano Trump sui dazi rappresenterebbe il più grande aumento delle tasse dal Dopoguerra. Trump promette che di sicuro aumenterà i dazi e che, se taglierà le altre imposte, lo farà in deficit nonostante il debito pubblico americano sia su una pericolosa traiettoria ascendente (in questo in continuità con l’amministrazione Biden).

Il pilastro dell’azione di Milei in Argentina, l’obiettivo non negoziabile del suo piano di stabilizzazione macroeconomica, è stato invece l’avanzo di bilancio, ottenuto con una riduzione del deficit fiscale di 5 punti di pil in appena un mese, attraverso il taglio della spesa pubblica. Mentre sul fronte dei dazi, l’amministrazione Milei sta operando un massiccio disboscamento della fitta maglia di regole e leggi, che si sono stratificate in decenni di dittatura e peronismo, e che soffocano l’economia argentina. Tra queste, ci sono ovviamente tutte le barriere doganali, incluse quelle non tariffarie, che restringono il mercato argentino alla concorrenza estera: l’amministrazione Milei ha liberalizzato tantissime importazioni (ad esempio nel mercato dei farmaci) e abbassato i dazi (che arrivavano fino al 35%) su circa 90 prodotti. Inoltre, dopo aver raggiunto l’avanzo di bilancio, la prima mossa fiscale è stata il taglio dell’Impuesto Pais, un’altra tassa generalizzata sulle importazioni che era stata aumentata proprio per mettere a posto il bilancio.

Il punto non è semplicemente l’aumento delle tasse, ma la visione del mondo alla base della politica economica. Trump promette di rifare grande l’America chiudendosi al mondo, imponendo dazi agli stranieri e protezione ai produttori nazionali, per rilanciare l’industria made in Usa. Milei, al contrario, promette di far tornare grande l’Argentina – com’era al principio del Novecento – aprendosi al mondo: attirando investimenti esteri, tagliando la burocrazia, stimolando la concorrenza.

Il paradosso è che la politica industriale di Trump è stata la via argentina alla povertà, mentre quella di Milei la via americana allo sviluppo. Il presidente argentino, e non ne fa certo mistero, si rifa al liberalismo classico e alla tradizione libertaria statunitense, che hanno avuto in Milton Friedman e Ronald Reagan il culmine teorico e politico. Trump invece, inconsapevolmente, ricalca le tesi dello “strutturalismo” e della “sostituzione delle importazioni” che hanno avuto in America latina come massimi esponenti due argentini: sul piano teorico l’economista Raúl Prebisch e sul piano politico il generale Juan Domingo Perón. L’idea alla base di quel modello è, appunto, che lo stato debba ostacolare la concorrenza internazionale per far crescere un’industria nazionale. L’Argentina peronista mostra il colossale fallimento di quel modello.

In un recente discorso alla sede dell’Unione degli industriali, criticando apertamente gli imprenditori che lo ascoltavano per la loro “relazione di tutela viziosa” con lo stato, Milei ha detto loro che il “modello della sostituzione delle importazioni” è fallito: “Il protezionismo non ha fatto altro che generare un settore industriale dipendente dallo Stato. Questa è una delle radici delle crisi economiche strutturali che soffriamo da tanti decenni”. Nel vocabolario di Milei la parola “dazio” è sicuramente tra le più brutte che ci siano, insieme ai sinonimi “tassa” e “protezionismo”.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali

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