A quasi trent’anni dalla sua uscita, arriva la ripubblicazione di un esperimento letterario particolarmente riuscito che modifica le formule standard del genere. Le inquietudini degli anni movimentati di fine Novecento e la tensione continua tra mondano e divino
“Lessico famigliare” di Natalia Ginzburg, “La cognizione del dolore” di Carlo Emilio Gadda fino ai Salvemini in “La ferocia” di Nicola Lagioia o i Sartori in “Prima di noi” di Giorgio Fontana, o i dolorosi snodi di “Costellazione familiare” di Rosa Matteucci e di “Il Duca” di Matteo Melchiorre. Questo campionario minimo testimonia la presenza dirompente della famiglia all’interno del romanzo italiano, strumento letterario dalle innumerevoli possibilità affabulatorie, che può funzionare come principale palcoscenico della narrazione o come radicale strumento di dissezione delle dinamiche borghesi, un topos che adombra il romanzo dalla sua nascita fino alla contemporaneità. In un appiattimento a tratti sinistro, arriva gradita la ripubblicazione di “Il libro di Teresa” di Carola Susani (Marietti 1820), che dopo quasi trent’anni si presenta ancora come un esperimento particolarmente originale e riuscito di romanzo famigliare per il modo con cui piega le formule standard del genere, mescolando le inquietudini sperimentali di fine Novecento con un afflato spirituale basato sulla tensione continua tra mondano e divino che annulla il tempo dell’ambientazione.
“Il libro di Teresa” segue le vicende di una famiglia composta dai genitori e cinque figli tra le prime avvisaglie del fascismo e gli anni Sessanta: se da un lato il periodo storico incide nelle varie esistenze (come per il padre Aldo, giornalista che orbita attorno al regime e viene ucciso ai tempi della Repubblica sociale), è in realtà la storia di questo piccolo microcosmo famigliare a scolpire l’andamento della storia, a darne una sorta di versione originale. Anche se in anni movimentati (l’ascesa del fascismo e il suo volto totalitario, l’arrivo degli americani e la spensieratezza degli anni Cinquanta), sono proprio gli avvenimenti che coinvolgono la famiglia a costruire la vera Storia, tra chi prende i voti (Ida, personaggio memorabile, dotata di un rapporto speciale con Dio), chi si sposa, chi muore e chi lascia la propria casa per sempre. “Credo che all’uomo competa solo quello spazio piccolo in cui le cose si possono dominare”, recita una delle dichiarazioni di poetica più esplicite di questo romanzo che ricorda come all’interno della Storia, lo “scandalo che dura da diecimila anni”, le piccole esistenze non siano che un minimo accidente (“si era raccolta della polvere sul tavolo del tinello, si vedeva che papà era morto da tre giorni”, pensa Maria prima del funerale del padre, come se l’esistenza quotidiana avesse già ripreso il suo corso).
I brevi e frammentati capitoli di “Il libro di Teresa” assomigliano a una pala d’altare perché ogni pannello racconta una storia ma, nell’insieme, offrono un affresco omogeneo dove ogni scheggia narrativa illumina la precedente e prefigura la successiva. Nel pannello centrale dell’altare della cattedrale di Gand si staglia un agnello ferito il cui sangue riscatta l’esistenza dell’uomo, simbolo del sacrificio che è origine di ogni cosa e che Roberto Calasso utilizza per descrivere questa necessità umana di redenzione: “Agli uomini era concesso, per qualche tempo, un senso di liberazione, senza impedimenti, ma presto tornavano alla condizione di ostaggi in attesa di riscatto, nuovamente in attesa del sangue dell’agnello divino”. E’ questa la spiritualità che abita “Il libro di Teresa”, un ricongiungersi all’oscillazione imperitura tra peccato e redenzione che abita l’Antico e il Nuovo Testamento e che qui si concretizza in una religiosità diffusa e stringente, un’idea altissima della fede che si minimizza nelle esperienze quotidiane di questa famiglia ma che un occhio premuroso riconosce in tutta la sua commovente problematicità.