Fuorigioco con la fotocellula, regolamenti puntigliosi e arbitri terrorizzati dall’errore. Ha ragione Alessandro Nesta: “Il calcio si sta adattando al regolamento, ma dev’essere il contrario, perché il calcio è la cosa principale, non il regolamento”
Si vorrebbe tanto parlare di calcio, della rinascita di Riccardo Orsolini a rilanciare il Bologna e zittire i dubbiosi, dei cross a brioche di Federico Dimarco o Geōrgios Kyriakopoulos, forse l’uomo più in forma del torneo. E invece incombono gli ennesimi mal di pancia da Var, fuorigioco con la fotocellula, regolamenti puntigliosi e arbitri terrorizzati dall’errore: la domenica ha regalato più di un caso, molti in Inter-Venezia.
Dal gol annullato a Henrikh Mkit’aryan per un’unghia dello stesso esterno azzurro alla penalizzazione che Marcus Thuram si è visto infliggere perché calza un piede più grande del suo avversario nell’azione che avrebbe portato probabilmente ad accordare un calcio di rigore, fino al pasticcio del minuto 98 con Marin Šverko che contrasta Yann Bisseck e colpisce casualmente con la mano, viene da rileggere il dialogo avuto da Alessandro Nesta con le tv al termine di Monza-Milan. Il tecnico dei brianzoli, stanco dei messaggi di scuse invoca il ritorno alla naturalezza, alla scioltezza, al libero scorrimento delle azioni e del pallone: “Il calcio si sta adattando al regolamento, ma dev’essere il contrario, perché il calcio è la cosa principale, non il regolamento”. Finalmente uno esplicito, e pure autorevole avendo vinto tutto. Perché in fondo è proprio lì la questione: non è colpa del Var né degli uomini o delle donne (arbitro), ma di preservare la bontà dell’innovazione tecnologica dai sempre meno indifendibili – e sempre più motivati – attacchi critici.
Questa è “La nota stonata“, la rubrica di Enrico Veronese sul fine settimana della Serie A, che racconta ciò che rompe e turba la narrazione del bello del nostro campionato che è sempre più distante da essere il più bello del mondo
Bene scriveva qualche settimana fa Giovanni Battistuzzi in queste pagine: “Il Var ha creato un mondo a parte, una nuova realtà, una sorta di calcio distopico dove si capisce poco o nulla. C’è nulla di peggio di utilizzare male la tecnologia, perché ciò presta il fianco ai luddisti”. Già si odono infatti le curve invocare “vogliamo il Var!” al posto di “vogliamo il gol!” in caso di azioni dubbie… ben poco spontaneo, anzi foriero di un cambiamento di prospettive, mentalità, tic.
In nome dell’armonia, la stella polare cui parametrare regole, Var, gioco e decisioni arbitrali dovrebbe essere la volontarietà, concetto che tiene conto tanto della fisiologia quanto del favor per la giocabilità. In primis, tarare il fuorigioco “semiautomatico” in una variabile non di per sé vincolante alle scelte dei direttori o direttrici di gara, chiamate a valutare con quale parte del corpo l’atleta risulta in offside, di quanti centimetri o millimetri, se rivolto verso l’azione o dalla parte opposta. Magari introducendo la possibilità di challenge. Perché quello che chiediamo allo sport sono le performance, non il disquisire di “aumenti del volume corporeo” o di “luce” tra i giocatori.
Si vorrebbe parlare di calcio, dell’Atalanta che esplode fuori casa e ultimamente stenta di più quando gioca a Bergamo, del Lecce unico interprete del 4-4-2 à la Cúper con le ali che si accentrano, ma anche questa settimana gli occhi del popolo sono stati offesi da seconde e terze maglie per niente indispensabili, anzi occasionali, natalizie, cinematografiche, reminiscenti. Un mal vezzo del marketing che non accenna a placare, nonostante siano evidenti i danni prodotti alla riconoscibilità del brand (dovrebbe essere il primo imperativo per chi vende un prodotto), trasmesso in via immediata dai colori sociali storici almeno per chi gioca in casa. Tenere quelle curve in rivolta che dicono “vi tifiamo solo per la maglia”: quale? Basta, per pietà.
Si vorrebbe parlare di calcio, come nei forum dove se le suonano disfattisti e “tuttapposter”, chi avanza un dubbio è tacciato di tradimento e chi sopporta anche le decisioni più inique si prostra ala proprietà. Ma giunge la notizia di un campetto parrocchiale in Veneto, come tanti ce ne sono di sterrato al sole, dichiarato inagibile e chiuso all’utilizzo di ragazzi e ragazze per l’assenza di una qualche forma di certificazione europea di sicurezza. Immaginate la frazione sonnolenta, la desolatezza di alternative ai videogiochi del bar, i soloni che si sperticano a ogni eliminazione motivata con la differenza dagli altri paesi: e il campetto sprangato.
Non è che le troppe asseverazioni a tutti i livelli, bollini, tagliandi, passaggi occhiuti per far guadagnare periti, studi, controllori sono il risvolto “analogico” della VAR sterilizzante?
Si vorrebbe poter parlare di calcio, in mezzo al mare di tuziorismi che invade ogni Valencia civile.