Non possiamo limitarci a essere in prospettiva la Disneyland del cibo, del turismo, della moda e del design. La politica, finora timida o latitante, saprà porre il benessere economico del continente europeo su un gradino più alto rispetto alla difesa di un’ideologia?
Noi, l’Europa, l’America, Trump, Kamala, l’industria, l’economia, il benessere: in fondo è tutto qui. Francesco Buzzella è il presidente di una delle associazioni di categoria più importanti d’Italia, Federchimica, e all’inizio della scorsa settimana, nel corso dell’assemblea annuale della sua associazione, ha lanciato un allarme che merita di essere preso sul serio, che ci spiega con parole diverse, e forse più efficaci, un dramma industriale più famoso, che riguarda un settore più conosciuto, quello delle auto, e che ci spiega bene cosa rischia l’Italia nel caso in cui la sfida commerciale con gli Stati Uniti dovesse diventare sleale, dominata cioè da un pericoloso protezionismo trumpiano.
Il tema che ha affrontato Buzzella, lo stato della chimica italiana, settore di cui l’Italia è uno dei leader in Europa, il terzo produttore, dopo Germania e Francia, con 59,5 miliardi di fatturato e il decimo al mondo, settore di cui il mercato americano è la seconda destinazione con una quota di esportazioni pari al 10,5 per cento del totale, non interessa solo questo ambito ma va visto in una prospettiva più ampia che anche gli europeisti dovrebbero iniziare a mettere al centro della propria agenda e al centro della propria attenzione: la progressiva e inevitabile deindustrializzazione del nostro continente e i rischi che questa deindustrializzazione possa essere incentivata e favorita da un nuovo corso politico in America. L’espressione è forte, deindustrializzazione, persino apocalittica se si vuole, ma gli spunti di riflessione, che arrivano in un momento importante per l’Europa, un momento in cui il nostro continente potrebbe fare i conti da un momento all’altro con un alleato americano meno protettivo e ancora più aggressivo nei confronti della nostra industria, fanno impressione ma costringono a riflettere e suggeriscono una presa di coscienza di un tema che dovrebbe stare a cuore anche a tutti coloro che hanno trasformato la difesa dell’ambiente in un dogma assoluto, svincolato dalla difesa del nostro benessere, dalla difesa della nostra manifattura, dalla difesa della nostra industria. L’accusa è forte. L’Europa, si dice, nelle sue politiche ambientali non solo ha trascurato l’importanza della manifattura, ma ha considerato le industrie più energivore (chimica, acciaio, cemento, carta, vetro, ceramica) quasi come se fossero un fastidio da ridimensionare. Il capo di imputazione è importante e le prove a supporto della tesi sono molte e sono purtroppo convincenti.
L’Europa, che rappresenta circa il 7 per cento delle emissioni globali di gas climalteranti, in questi anni si è voluta ergere per prima a paladina della difesa del pianeta, seguendo un’impostazione precisa: siamo i più bravi, siamo i più puri, dettiamo noi le regole a livello globale, e vedrete che il resto del mondo ci seguirà. Fino a oggi, però, il mondo non solo non ha seguìto l’Europa ma ha trasformato la traiettoria dell’Europa in un’opportunità utile a rendere l’Europa più debole e a spingerla verso quella che Mario Draghi, nel suo famoso rapporto sulla competitività, ha definito una “lenta agonia”. In questo senso, l’Europa ha scelto di mettere al centro dell’agenda l’obiettivo di raggiungere prima di chiunque altro al mondo la sua neutralità climatica (cioè emettere nell’atmosfera solo la quantità di gas a effetto serra che può essere assorbita dalla natura), anche a costo di sacrificare una parte della sua economia, tra cui l’industria più pesante, e dunque più energivora. Altre realtà, come gli Stati Uniti, per esempio, hanno scelto di mettere al centro della propria agenda l’obiettivo di raggiungere il prima possibile, e con più continuità possibile, la propria indipendenza energetica, anche per consentire alle imprese di avere costi energetici più accettabili. E il risultato oggi è questo. Negli ultimi due anni l’Europa ha visto triplicare i costi dell’energia rispetto a quelli degli Stati Uniti. Nel 2024 i prezzi del gas si sono mantenuti su livelli pari a oltre il quadruplo di quelli statunitensi. I costi energetici non competitivi hanno frenato i nuovi investimenti e hanno comportato la razionalizzazione di alcune produzioni di base (non a caso, nel 2024, sul totale delle chiusure annunciate a livello mondiale nel settore della chimica, il 75 per cento riguarda l’Unione europea).
Complessivamente – tra costi diretti e indiretti per le emissioni di CO2 – l’industria chimica versa in un anno oltre 600 milioni di euro. Di qui al 2030, il costo è destinato ad arrivare a circa 1,5 miliardi di euro. Infine, a causa del così detto sistema Ets, le grandi imprese energivore europee, uniche nel mondo, devono pagare non solo per il gas in ingresso (per quello che consumano) ma anche per l’emissione dei gas combusti in uscita (la tassa sulle emissioni) che in prospettiva, con la fine delle quote gratuite di CO2, andranno a pesare ancora di più sui bilanci (in base al sistema Ets, per le emissioni di CO2 – tra costi diretti e indiretti – l’industria chimica in Italia versa un onere prossimo a tutti gli investimenti in ricerca e innovazione del settore). Avete capito bene. Un prodotto fatto in Europa, oggi, non solo sconta un costo dell’energia più alto (ci siamo preoccupati troppo tardi della nostra indipendenza energetica) ma sconta anche un costo aggiuntivo molto alto (la tassa sulle emissioni). E così un prodotto realizzato in Europa, anche se destinato a un mercato extraeuropeo, ha un costo superiore a un qualsiasi prodotto realizzato fuori dall’Europa e indirizzato magari allo stesso mercato. Per fissare bene il concetto: un prodotto chimico venduto dall’Europa al Giappone costa inevitabilmente di più di un prodotto chimico venduto dall’Australia o dalla Cina o dagli Stati Uniti al Giappone. La chimica, ovviamente, insieme al settore dell’acciaio, è tra i settori più sensibili in quanto utilizza le fonti fossili (petrolio e gas naturale) sia a fini energetici sia come materie prime e teme per il suo futuro perché, “alla luce delle tecnologie disponibili attualmente, la loro integrale sostituzione non è praticabile”. La lezione è evidente. Continuare a enfatizzare i vantaggi ambientali sottostimando i costi industriali significa non capire che l’Europa sta cambiando, che le industrie si stanno trasformando, che la transizione ha degli effetti che devono imporre alle nostre imprese di cambiare passo sulla tecnologia e sull’innovazione, come ha suggerito giorni fa sulle nostre pagine Lorenzo Bini Smaghi. E per quanto la transizione verde sia un obiettivo ineluttabile, il caso della chimica ci ricorda che l’eccessiva accelerazione europea, senza adeguate misure di supporto, ha costi che rischiano di essere insopportabili e che per questo bisogna considerare.
Per esempio, dice Buzzella, non c’è alternativa alla riduzione del costo dell’energia a livelli accessibili e competitivi, se vogliamo ripartire e non diventare ininfluenti sul piano internazionale. Certo: il nucleare di nuova generazione può essere una soluzione, ovviamente, e sarà indispensabile per assicurare non solo all’industria chimica energia sicura, stabile, a zero emissioni e a costi competitivi. Ma ci vorranno in ogni caso tantissimi impianti, arriverà tra molti anni, e nel frattempo ci sono settori che devono sopravvivere. Finora, la scelta della politica di fronte a questo tema è stata più o meno questa: convincersi che ci sia un problema, ma suggerendo proposte populistiche per trovare soluzioni, o far finta di nulla aiutando l’Europa a perdere la sua competitività nella speranza che ne acquisisca un’altra come per magia, limitandosi a essere in prospettiva la Disneyland del cibo, del turismo, della moda e del design. Ragionare su ambientalismo non ideologico diventa quanto mai necessario anche alla luce della nuova stagione che potrebbe vivere l’Europa anche all’indomani delle elezioni americane e non ci vuole molto a capire che in caso di vittoria trumpiana la presenza di un muro verso l’export delle nostre merci potrebbe mettere l’industria europea di fronte a un’altra forma di dura pressione da governare (complimenti agli utili idioti del trumpismo europeo che urlano prima l’Italia tifando per un presidente la cui vittoria rischia di portare grossi guai alle esportazioni italiane). L’allarme è dunque chiaro, il problema è di fronte ai nostri occhi e comunque andranno le elezioni americane sarà anche da questi particolari, per dirla alla De Gregori, che si giudicherà la capacità dell’Europa di essere un buon giocatore disposto a mettere la difesa del benessere economico di un continente su un piedistallo più alto rispetto alla difesa di un’ideologia da sballo.