Il tradimento degli “anti” che sono diventati “pro”, e stanno con Hamas, Putin e Maduro

Il 7 ottobre ha fatto tracimare tutti i miasmi che le democrazie liberali covavano in seno. Ma ora abbiamo oltrepassato un’altra soglia della disfatta culturale occidentale

Ma ora abbiamo oltrepassato un’altra soglia della disfatta culturale occidentale. L’“anti” è diventato “pro”: questa è la novità che non era facile prevedere. Eccoli, ululanti e sempre in piazza, pro talebani, pro iraniani, pro Hamas, pro Hezbollah, pro Putin, pro Kim Jong-Un, pro Xi Jinping, pro Maduro. Pro ogni forma di dispotismo, sorretti dal presidente dell’Onu che si inchina rispettosamente ai despoti. Pro qualunque manifestazione di antidemocrazia si imponga nel mondo. Almeno nella Guerra fredda di totalitarismo da celebrare e riverire con un “pro” ce n’era solo uno (con tutte le sotto-varianti). Qui invece è una proliferazione di regni del terrore, di autoritarismi, tirannie, satrapie, dittature. Usando un’immagine di Luciano Capone, a furia di solleticare con l’immaginazione le nostre manie distopiche siamo passati alla venerazione del dispotico: la donna d’occidente che sventola il vessillo dei carnefici di Kabul.



Certo, nella storia anche recente mica è un inedito assoluto questo trasformare un sentimento non del tutto ignobile (la giustizia, la solidarietà con gli oppressi, le vittime innocenti delle guerre, l’accoglienza per i dannati della Terra e via dicendo) in un inno fanatico alle carneficine compiute in nome del Bene. Tanto per dire: mentre qui in occidente i futuri notai (copyright Eugène Ionesco) agitavano nei boulevard e nelle piazze il libretto rosso di Mao Ze Dong e si incantavano con la “Chinoise” di Godard, nello stesso istante nella Cina tiranneggiata dalle guardie rosse venivano comminati migliaia di anni di carcere ai poeti colpevoli solo di conoscere una lingua straniera “imperialista”, si riempivano i lager detti “campi di rieducazione” (laogai, insomma il Gulag), venivano ridotti a storpi per le botte ricevute gli uomini accusati di essere “imbevuti di cultura borghese” e il figlio di Deng Xiaoping fu reso paraplegico per i maltrattamenti ricevuti. O ancora, per aggiungere: qui si adorava l’icona del “Che” che i gay dell’Avana non ammiravano molto perché aveva aperto a Cuba i campi di concentramento per i “maricones”, con il poeta omosessuale Heberto Padilla imprigionato e mandato in esilio dall’osannato governo di Fidel. Si potrebbe continuare con un’infinità di esempi. Inneggiare ai dittatori è stata una specialità delle piazze del Novecento.

Non è più universale il valore della libertà d’espressione e di pensiero, e dunque è giusto cacciare i docenti non allineati dalle università. Il tribalismo soppianta l’universalità. Se fai parte di una tribù oppressa tutto diventa lecito

E tuttavia con il 1989 era sembrato che un capitolo della storia della politica occidentale e dei suoi incantamenti per le tirannie ideologiche si fosse chiuso per sempre. Ma adesso, quando quella storia è stata dimenticata con spietatezza anagrafica e le piazze e le università occidentali un tempo prestigiose sono riempite di giovani che nell’89 forse non erano nemmeno nati, l’infatuazione per i dispotismi anti occidente ha ripreso fiato e vigore e arroganza e intolleranza. Per loro, per i combattenti dell’illibertà nelle sue varie forme, è stato normale e anzi doveroso cacciare una docente come Kathleen Stock, storica femminista e fieramente lesbica, dall’Università del Sussex, perché come “transfobica” (!) meritava la scorta dopo le minacce fisiche e i cortei che all’imbrunire la perseguitavano con le torce minacciose, come i raduni nazisti di Norimberga o come la scena spaventosa del film di Joseph Losey “Linciaggio”, con il popolo virtuoso in corteo che vuole letteralmente fare a pezzi l’innocente mostrificato. La libertà d’espressione, la libertà di parola, insomma l’ossigeno che rende vitale un regime democratico, per i nuovi pro talebani non significano più niente. Non sono valori da difendere, da curare e di cui non sbarazzarsi con leggerezza e stupidità. Roland Barthes diceva che il linguaggio, ogni linguaggio, è intrinsecamente “fascista”. Solo che per Barthes questa sentenza era un elegante paradosso, per i nuovi jihadisti d’occidente, analfabeti d’andata e di ritorno, è diventata un dogma e un pretesto per mettere il bavaglio a una società intera. La parola, secondo loro, è il regno del dominio e dunque i dominatori non devono più avere la possibilità di esercitarlo. Dunque museruola al dissidente, a chi la pensa diversamente, all’ebreo che osa presentarsi in un’università semplicemente per discutere e dire la sua, a chi scrive o presenta un libro non conforme. I nuovi “nemici del popolo” sul cui petto cucire la lettera scarlatta. Oggi basta dire con sdegno “transfobico” e l’Intifada liberticida può avere trionfalmente inizio.



Mi pento di aver abusato di un termine che mi sembrava appropriato per descrivere il grottesco doppio standard messo in mostra dai nuovi “acampados”, così severo con i delitti di cui l’occidente si sarebbe reso colpevole e così indulgenti che i terrificanti delitti commessi dai nuovi “oppressi” con cui allearsi. E il termine che d’ora in poi farò in modo di dimenticare è: ipocrisia. Sbagliato l’abuso, e persino l’uso, perché anche l’uso contiene un eccesso psicologistico, trasforma l’ideologia in una debolezza caratteriale, in una mancanza patologica di senso morale. Errore. Non era ipocrita Michel Foucault, il critico del morbo totalitario dell’occidente che sorveglia e punisce ogni devianza con carceri e manicomi, a sciogliersi commosso nell’ammirazione della esaltante “rivoluzione spirituale” mentre l’oscurantismo khomeinista inaugurava il suo nuovo Medioevo a Teheran: era rigorosamente coerente con la sua avversione ideologica alla democrazia e al capitalismo in veste satanica. Non sono ipocrite le ragazze in kefiah che si rifiutano di solidarizzare con le donne ebree che hanno subito lo stupro di massa del 7 ottobre: stanno solo dicendo che la rivoluzione di Hamas può permettersi qualunque nefandezza per cacciare le colonialiste che opprimono il popolo palestinese. Non è ipocrita il capo dell’Anpi Pagliarulo che esibisce le insegne della lotta partigiana (mai personalmente combattuta: solo chiacchiere e distintivo) e poi si genuflette ai piedi dell’aggressore Putin che scarica bombe sugli ospedali, le stazioni e le pizzerie per battere la Resistenza ucraina: è semplicemente un comunista venato di nostalgie sovietiche che vuole vedere umiliata la Nato, l’America e le nostre democrazie. La psicologizzazione delle posizioni opposte alle nostre conduce diritto alla psichiatrizzazione del dissenso e infatti con la scusa dell’islamofobia, cioè la riduzione della critica razionale e fattuale al fondamentalismo islamista che si trasforma in fobia paranoica e ossessiva, in Francia volevano scaraventare Oriana Fallaci in gattabuia, e per evitare la quale Houellebecq ha dovuto fare autocritica. Non è ipocrisia la richiesta di boicottare le università israeliane e contemporaneamente sostenere gli accordi di un nostro ateneo con l’Università di Kabul, dove le donne sepolte dal burqa non possono nemmeno affacciarsi: è la manifestazione perfettamente logica di una “scelta di campo”, come si diceva un tempo. Quindi meglio lasciar perdere l’ipocrisia, che condanna ma non spiega. Loro la pensano così e vogliono far fuori la democrazia: prospettiva ideologica del tutto coerente con le premesse. Se fai programmaticamente del Male per ottenere il Bene, la tua violenza è santa, quella del nemico oscena. Vecchia storia, ma sempre nuova.



Ricordo che negli anni immediatamente precedenti all’89 liberatore, il mondo comunista italiano era attraversato dal dibattito doloroso sul “valore universale della democrazia”. Cioè: la democrazia deve valere dappertutto, non c’è progresso sociale senza democrazia, non c’è giustizia senza libertà, l’Est socialista non è più un modello perché non riconosce il valore universale della democrazia. A sinistra Norberto Bobbio si prendeva una sonora rivincita sul Togliatti (e sui suoi intellettuali organici) che con la stilografica verde ironizzava, pur negli anni della scrittura di una Costituzione democratica della Repubblica nata dalla Resistenza, sulle anime belle incapaci di vedere il carattere puramente formale della “democrazia borghese” e dunque la superiorità della democrazia “sostanziale” di cui era stato spettatore all’Hotel Lux di Mosca. Alla fine il “valore universale della democrazia” vinse la battaglia. Ma oggi, a quasi quarant’anni di distanza il “valore universale della democrazia” rischia di conoscere la sua disfatta. Nelle piazze vocianti, e nel ceto intellettuale e giornalistico che ne è insieme la guida e il supporto, non è più universale il valore della democrazia, per cui è meglio l’Iran di Israele. Non è più universale il valore dei diritti umani fondamentali, per cui si può portare la bandiera dei talebani lordata dal sangue delle donne perseguitate, lapidate, uccise e sentirsi dalla “parte giusta” della storia. Non è più universale il valore della libertà d’espressione, della libertà di opinione, della libertà di pensiero e dunque è giusto cacciare i docenti non allineati dalle università e una giornalista libera come Bari Weiss deve lasciare il New York Times per sottrarsi al bullismo woke dei suoi colleghi radicalizzati. Non è più nemmeno universale il valore dell’eguaglianza tra uomo e donna se questa diventa una maschera del dominio occidentale che schiaccia i popoli oppressi. Il tribalismo soppianta l’universalità. Se fai parte di una tribù oppressa tutto diventa lecito. Ecco l’innesco della deflagrazione mentale processo per cui l’“anti” diventa, spaventosamente, “pro”.

La parola “Hamas” ha via via perduto l’aura terribile di una connotazione negativa fino al punto di convocare una manifestazione a Roma alla vigilia dell’anniversario del 7 ottobre per celebrare “l’inizio della resistenza”



All’inizio, subito dopo il 7 ottobre, una data spartiacque che ha rimesso in circolo temi e pulsioni che dopo la Shoah sembravano tenuti a bada e protetti da un tabù morale, ci si nascondeva ancora dietro a una distinzione: stiamo con il popolo palestinese, non stiamo con Hamas; non confondete il popolo palestinese con Hamas e così via. Come poi si potessero conciliare i virtuosi discorsi sulla necessità di “due stati per due popoli” con l’invocazione di una Palestina libera “dal fiume al mare” è uno dei misteri semantici con cui la sinistra ci ha spesso deliziato anche in tempi molto lontani. Poco a poco, irresistibilmente, progressivamente, prima timidamente poi sempre più spavaldamente la parola “Hamas” ha però via via perduto l’aura terribile di una connotazione negativa fino al punto di convocare una manifestazione a Roma alla vigilia dell’anniversario del 7 ottobre per celebrare “l’inizio della resistenza”: cioè il massacro di ebrei, lo stupro di massa, il pogrom come una forma legittima di ribellione. Anche qui, da anti Hamas a pro Hamas. Ci voleva una figura che sdoganasse e rendesse possibile e accettabile questo passaggio fino al punto di arruolarsi nel fronte che da dal sud del Libano arriva a Mosca e da Teheran si congiunge con gli assassini asserragliati nei tunnel di Gaza (e con qualche contiguità con Pechino, Ankara e ora persino Pyongyang). (segue nell’inserto III)

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