Ribelle di ogni bellezza e di mille forme, Niki de Saint Phalle splende in una gran mostra al Mudec

Nata bella, anzi bellissima e nata bene, anzi benissimo (il padre era un ricco banchiere), la francese Niki de Saint Phalle (1930-2002) ha ribaltato l’anagrafica del luogo comune diventando una delle più irriverenti e radicali artiste del suo tempo. Niki, battezzata Catherine-Marie-Agnès Fal de Saint Phalle, ne ha fatte davvero di ogni da far sembrare le performer del mondo dell’arte di oggi delle scialbe debuttanti: scappa e riscappa dal nobil collegio cui era stata iscritta per studiare, s’impunta a voler vivere d’arte, sposa un artista con pochi soldi e talenti, Harry Matthews, e con lui ha due figli, Laura e Philip, che porta a vivere in Val d’Orcia. Poi incontra Jean Tinguely e se ne innamora, lascia marito e prole per condividere con il nuovo amore – il compagno di una vita, anche quando non staranno più insieme – l’atelier a Parigi.

Nel frattempo, sono i primi anni Sessanta, Niki de Saint Phalle inventa “I Tiri”, veri e propri spari fatti con una carabina su tele di pittura, un gesto liberatorio e anticonformista (chissà che cosa avrebbe detto di SAGG Napoli, la giovane artista-arciera che ha aperto con clamore l’ultima filata di Dior a Parigi). De Saint Phalle prende di mira soprattutto dipinti in cui riproduce cattedrali e altari, simboli – dice – del potere costituito: una di queste sue performance, di cui rimangono oggetti e foto, avviene giusto a Milano nel 1970, in occasione del festival per il decimo anniversario del Nouveau Réalisme alla Rotonda della Besana. Parte da qui la mostra dedicata a Niki de Saint Phalle al Mudec, la prima mai organizzata in Italia da un museo pubblico per celebrare l’artista francese che ha sposato (lei così splendida) la “body-positivity” con le sue statue di donne debordanti, (lei così privilegiata) l’“inclusion” con le sue sculture nere e il lavoro a favore dei malati di Aids, (lei così occidentale e così ricca) la “diversity” con progetti artistici sulle culture extraeuropee e la costruzione di un gagliardo quanto esoterico parco di arte pubblica, il Giardino dei Tarocchi, a Capalbio, da vedere senza se e senza ma.

Complimenti quindi al Mudec, il Museo delle Culture di via Tortona, che fino al 16 febbraio, per la cura attenta di Lucia Pesapane, mette in mostra i molteplici talenti di Niki de Saint Phalle riuscendo nell’intento di rendercela persino simpatica. Scandita in otto sezioni intelligentemente non in ordine cronologico (Niki de Saint Phalle procedeva del resto per corsi e ricorsi), è una mostra facile solo in apparenza: va letta in filigrana con la biografia complessa dell’artista ed è meritevole, a questo proposito, la ripubblicazione del suo memoir “Il mio segreto” per 24Ore Cultura, un titolo da tempo fuori catalogo. L’arte gioiosa, eppur inclusiva, squisitamente femminista e non-eurocentrica di Niki de Saint Phalle non è una posa a favore di telecamera, ma nasce tra le pieghe e le piaghe della vita. La stella sotto cui Niki è nata non è stata infatti poi così generosa: abusata sessualmente dal padre da bambina – lo ha racconta nel rabbioso film “Daddy” e nel volume di cui prima si diceva – per tutta la vita ha lottato contro il conformismo, il perbenismo, l’ipocrisia, la prevaricazione. Ansiosa e divorata dall’asma tanto da scegliere di passare gli ultimi anni di vita a San Diego in California, al vento secco e caldo del deserto, Niki de Saint Phalle ha fatto di tutto per far dimenticare la sua bellezza e mettere in luce il suo poliedrico talento, non sempre in questo supportata da Tinguely. Ora i due – che ebbero una relazione, dice Pesapane, “esplosiva, una lo Yin e l’altro lo Yang, Venere e Vulcano” – paiono essersi riconciliati qui a Milano: mentre al Mudec compare un’opera di lei di cui lui ha firmato il basamento, al Pirelli Hangar Bicocca, dove è in corso una potente monografica su Tinguely, la mostra si chiude pertinentemente su un albero-scultura a quattro mani, le loro. Molto altro ci sarebbe da dire su de Saint Phalle, le cui sculture iper-colorate sono un inno alla vita nonostante tutto, le cui Nanas sono la versione pop and black delle grandi madri dell’arte arcaica da lei tanto amata e il cui Giardino dei Tarocchi, dalla gestazione così tribolata che costò all’artista quasi tutti i suoi risparmi, è un unicum nel nostro paese. Grazie, dunque, a questa mostra al Mudec che ben riassume vita e opere di una vera rebel dell’arte, attivista di tutte le cause un tempo scomode, oggi di gran moda.

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