Come reagiamo da spettatori del male. L’impennata di chirurgia plastica in Israele

Spesso siamo un pubblico mangiatutto alla continua ricerca di orrore e mostruosità sui social. Ma in questo gioco macabro cerchiamo comunque di distrarci dalla bufera di violenza della realtà per evadere dal nostro senso di impotenza

Israele e Palestina e il lunghissimo campo di battaglia. Un forse inutile dato: c’è stato un importante incremento degli interventi di chirurgia estetica. Secondo l’Associazione israeliana di chirurgia plastica, l’ultimo anno ha visto 54.000 operazioni. I numeri: 35.000 interventi di sollevamento del seno, che rappresentano circa il 65 per cento di tutti gli interventi; 14.000 interventi sono stati di riduzione del seno (circa il 26 per cento) e circa 6.000 interventi di mastoplastica additiva ( l’11 per cento). 4.000 interventi al naso, il 7 per cento di tutti gli interventi estetici, 11.500 interventi di lifting, compresi gli interventi alle palpebre (circa il 21 per cento), 11.000 addominoplastiche (il 20 per cento) e 1.800 interventi di otoplastica.

L’obiezione tradizionale ha le ragnatele: non sarebbe deplorevole, o almeno strano, o almeno azzardato andare in clinica a farsi riparare le orecchie a sventola se c’è il rischio di prendere una granata? Che me ne faccio del naso nuovo adesso? Anche l’interpretazione tradizionale perde senso. Si chiama coping – t’avrebbero detto dieci anni fa – è una forma di resistenza, il modo (uno qualsiasi) di pensare di avere il controllo su qualcosa, almeno sullo specchio. Sentirsi meno impotenti. Guerra sì, ma distraiamoci se ci riesce. Evasione, adattamento, legittimo meccanismo di sopportazione del trauma.



Non è quello. O almeno non soltanto. E’ una lunga strada che abbiamo fatto senza accorgercene e che ci fa dire – più spesso di quanto sarebbe normale – che è tutto normale. Quando è stato? Che qualcosa si fosse fratturato – un osso del discernimento – nel modo di vivere e intendere le cose, ci è successo in un giorno preciso? La prima dose di anestesia fu somministrata una sera di novembre, 2015. Bataclan. Francia, il giorno in cui Parigi smise di essere una festa mobile annaffiata a champagne e perse tutte le luci e tutte le forze, precipitando in una paura che da lì in poi si poteva solo ignorare, ma non se ne sarebbe mai più andata.



Le Torri Gemelle di New York ebbero solo i giornali del giorno dopo, quella sera, per la strage di Parigi, avevamo la diretta del giorno prima e il posto in piccionaia. I morti morivano dal vivo, i terroristi correvano per strada, i cadaveri comparivano e si moltiplicavano nei post dei passanti, i bar assaltati, i vetri sparati, le urla, la paura di chi stava ai balconi e filmava le strade. Noi delle parti del mondo che erano al sicuro ci piantammo tutti su Twitter, era come un reportage e un film dell’orrore, si stava incollati e increduli e si contavano i sequestrati nel teatro, e si aspettava. Si aspettava di sapere qualcosa, di vedere altri pezzi di guerriglia, si controllavano i video, ci sarà pure quello di uno dei prigionieri del teatro?



Da allora è ricapitato molte volte, siamo spesso spettatori dell’orrore, i video di mostruosità fanno parte stabile dell’ecosistema dei social, c’è il bravo disclaimer che il materiale è sensibile, molto sensibile ma si guarda lo stesso, che vuoi che sia una decapitazione. E l’orrore ha parecchie gradazioni di tono, è tutti i giorni, sui social. Quest’attrice giovane è stata operata di cancro, qui la cicatrice, è l’ora della chemio. Brenda di Beverly Hills, ultimo stadio, ah è morta? Quel cantante si è buttato dal balcone, eccolo a terra col bacino fracassato, sì sì, è proprio lui, ha gli stessi tatuaggi. Vuoi vedere la foto? Eccola. Ti va un po’ di Avetrana? Sì, magari. Peccato, il comune ha diffidato la Disney. Mi ricordo ancora quando dicevi Disney e poteva essere solo Topolino.


Siamo diventati pubblico mangiatutto, quindi un collettivo insensibile, non è più possibile reagire a niente, è troppo, da troppo tempo. I due modi che avevamo di uscire dalla paura erano dolore e negazione del dolore, una sponda portava all’altra in inversi sistemi di guarigione, ma ora?



La società, di fronte a crisi prolungate e violenze, mostra reazioni complesse e spesso contraddittorie. Ma qui non c’è né complessità né contraddizione, siamo abituati all’indifferenziato, a ogni veleno. Stiamo al gioco, ne facciamo parte, il morto del giorno è questo, avanti il prossimo. Fatemi vedere.



Di fondo è l’antica umanissima propensione al sé meschino, vanitoso e pettegolo – com’è sempre stato. Solo che non ho capito come, e in che lugubre modo, stiamo cominciando a peggiorare. Non dico a mia nonna che metteva un timido rossetto rosso in tempo di guerra, ma si potrebbe tornare almeno a quando eravamo stupidi, teledipendenti superficiali e al massimo soggetti al rischio di rimbecillire guardando Beautiful?

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