L’idea era quella di mostrare al grande pubblico le opere migliori del più famoso movimento artistico italiano dopo il Futurismo. Ma l’eccessiva ambizione della curatrice e una regia disastrosa hanno trasformato il tentativo in un’occasione perduta
Si possono fare mostre brutte ma ugualmente importanti per il pubblico generale? Sicuramente sì. Ce lo conferma la mostra sull’Arte povera curata da Carolyn Christov-Bakargiev per la collezione Pinault alla Bourse de commerce, a Parigi. Il pubblico dei non addetti ai lavori amerà i non pochi pezzi forti del più famoso movimento artistico italiano dopo il Futurismo. Condizione sufficiente perché la mostra abbia successo. Ma abbandonandosi a una hybris poco controllata, la curatrice ha messo in piedi un pasticciaccio brutto. Se il padre padrone dell’Arte povera, Germano Celant, non ha mai curato una vera e propria mostra della sua creatura, osteggiando se non addirittura boicottando chi ci voleva provare a farla, un motivo doveva esserci. Se nessuno vende i frigoriferi al Polo nord ci deve essere una ragione. La ragione di Celant, ignorata completamente da Carolyn Christov-Bakargiev, era il fatto di essere pienamente cosciente che da un atto unico non si può tirare fuori un’opera lirica di quattro o cinque ore.
La mostra di Parigi rappresenta invece questo tentativo. Tentativo andato male anche perché l’ambiziosa curatrice ha avuto la pretesa di voler fare la regista, mentre se si fosse limitata a fare la scenografa forse l’impresa le sarebbe pure riuscita. Ma il disastro della regia si vede subito appena si apre il sipario nella fenomenale rotonda progettata da Tadao Ando, un palcoscenico perfetto che non perdona le trovate. Trovata infatti è l’ammasso di opere messe al centro dello spazio dove capolavori seminali come “Io che prendo il sole a Torino” di Alighiero Boetti o le scarpette di rame della più brava artista del gruppo Marisa Merz perdono la loro necessaria poesia diventando aneddoti. Se si voleva fare onore all’Arte povera e all’architettura nella rotonda, bisognava avere il coraggio, qui mancante, di rimettere in scena i famosi “cavalli” di Jannis Kounellis esposti nel 1969 alla galleria l’Attico di Fabio Sargentini a Roma. Mentre al centro sarebbe bastato il mitico igloo di Giap di Mario Merz con magari vicino uno dei grandi cannoni di Pino Pascali invece della mitraglietta buttata lì come se fosse un giocattolo. In questa installazione viene a galla il fenomeno della sindrome di Cenerentola: oggetti diventati arte e carrozze d’oro, alla mezzanotte sono tornati a essere quello che erano, zucche. Le carrozze magiche vanno mantenute a costo di inventarsi all’infinito nuovi fusi orari della storia dell’arte, ritardando lo scoccare della mezzanotte. Carolyn Christov-Bakargiev si è distratta e l’orologio ha suonato.
Altro problema di questa mostra sono le bacheche che dovrebbero contestualizzare l’Arte povera e il periodo storico, politico, sociale e culturale che l’ha resa possibile. Ma anche qui si è voluto fare le nozze con i fichi secchi anziché, vista la nobilissima cornice, affrontare la storia a viso aperto andando a scovare le opere di quel Richard Serra che nel 1966, un anno prima della nascita dell’Arte povera, mostrò alla galleria La Salita a Roma gabbie con animali vivi e impagliati e altri oggetti trovati. Una mostra che influenzerà tantissimo gli artisti dell’Arte povera. Le opere esistono ancora, le ho viste, e potevano formare una galleria eccezionale e fondamentale nella mostra, facendo capire le origini del movimento e il contesto artistico che lo aveva prodotto. Detto questo, una mostra così fuori dall’Italia, ma anche in Italia, andava fatta. Peccato sia sta fatta male. Un’occasione perduta. Il pubblico comunque apprezzerà. Alcuni capiranno, altri no. Anche la curatrice dovrebbe capire, ma chissà. Vittima proprio di quello che diceva il generale vietcong Giap con la sua frase riportata in neon sull’igloo di Mario Merz: “Se il nemico si concentra perde terreno, se si disperde perde forza” . Nemica di se stessa, Carolyn Christov-Bakargiev ha perso sia forza che terreno.