Per Israele parlo io. Intervista a Eylon Levy

L’ex portavoce del governo ha deciso di diventare “portavoce dei cittadini”, si è messo a capo di una rivoluzione comunicativa in un paese che ha sempre pensato di essere troppo odiato per essere capito. Lo slogan sbagliato “Bring them home”, i problemi con la moglie di Bibi: saper comunicare quando le alleanze contano più delle amicizie

Eylon Levy è diventato famoso per tre cose in Israele: la sua mimica, le sue dimissioni, il suo progetto di rivoltare una delle convinzioni autopunitive di Israele basate sull’assunto che qualsiasi cosa il paese dica, dimostri o faccia, finirà sempre per essere condannato. Levy, cittadino britannico trasferitosi in Israele dieci anni fa, è impegnato da più di un anno nel dimostrare che informare, mostrare, raccontare come e perché Israele agisce non serve ad addolcire l’immagine dello stato ebraico nel mondo, ma è uno strumento vitale per rendere solide le alleanze, ben più importanti, in questo contesto, delle amicizie. Levy ha costruito una squadra di “portavoce dei cittadini”, dopo aver lavorato per qualche mese come portavoce ufficiale del governo. La sua parabola è sintomatica del periodo successivo al 7 ottobre, in cui Israele, colpito da un senso di urgenza collettivo per l’attacco di Hamas, come reazione immediata ha sentito il dovere di dimenticarsi delle divisioni che avevano colpito il paese nei mesi precedenti. “Il 7 ottobre mi sono svegliato con l’allarme delle sirene, sono corso nel rifugio, né io né i miei vicini avevamo idea di cosa stesse accadendo. Tra una sirena e l’altra, sono tornato nel mio appartamento a guardare le notizie, e come tutti ho pensato che i terroristi sarebbero stati catturati presto. Poi sono iniziati i resoconti dei primi cento morti, poi duecento, poi gli ostaggi. Ero inorridito. Il primo giorno è stato di choc, muto. Il secondo ho iniziato a mobilitarmi per raccogliere fondi e portare aiuti. Il terzo mi sono detto: per quanto il mondo sia scioccato per le atrocità commesse da Hamas, si volterà presto dall’altra parte, anzi, contro di noi, quindi è il momento di raccontare cosa sta accadendo in modo che nessuno possa negarlo”. Dal quarto giorno, Levy, ex consigliere del presidente, ha iniziato a rilasciare interviste da privato cittadino, con il suo soggiorno sullo sfondo. Poi si è ritrovato nell’ufficio del primo ministro, in veste ufficiale, con la bandiera dietro alle sue dichiarazioni. Fino a qualche mese prima, Levy era tra i manifestanti che scendevano in strada contro la riforma della Corte suprema, quindi contro il governo: “E’ una storia unica che unisce tutto il paese – racconta Levy al Foglio dal suo ufficio in un grattacielo a Tel Aviv dove ha stabilito il suo quartier generale – un anno prima che la guerra iniziasse, Israele era sempre più confuso, stavamo impazzendo dietro alla nostra politica. Le liti, l’umore, tutto contribuiva a un’atmosfera tossica. La guerra non ha migliorato nulla, ma all’improvviso ci siamo ricordati tutti cosa c’era in gioco, abbiamo ritrovato un senso di scopo e prospettiva collettivi: era importante rimanere uniti. Le cose che ci facevano infuriare prima della guerra sono state calate in un contesto di urgenza di un paese diventato squadra per la sua sopravvivenza”. Levy non era tra gli organizzatori delle proteste che per mesi hanno paralizzato Israele, ma era un frequentatore assiduo, “se mi avessi detto che da lì a qualche mese sarei diventato portavoce del governo – e poi ex portavoce – ti avrei chiesto se ci fossero in programma delle elezioni. Sarebbe stato impensabile per me. Ma poi è successo davvero l’impensabile: siamo stati invasi, milleduecento persone sono state uccise, duecentocinquantuno prese in ostaggio. Tutti abbiamo lasciato da parte risentimenti e progetti, abbiamo accantonato la politica con un unico obiettivo: vincere la guerra, altrimenti siamo in guai seri”.

Come i piloti che durante le manifestazioni si rifiutavano di servire il governo poi si sono messi nelle loro cabine di pilotaggio a poche ore dall’attacco, così Levy, che pure non avrebbe mai pensato di servire il primo ministro Benjamin Netanyahu, in una settimana si è ritrovato a essere il volto più popolare della comunicazione istituzionale israeliana: “Avevamo capito tutti quanto il paese avesse bisogno di ogni aiuto possibile, ci muovevamo come un solo corpo, consapevoli che ognuno ha un compito nella vittoria. Quando ho accettato il ruolo, non ero tanto preoccupato delle critiche della destra, temevo di più le critiche di chi aveva protestato con me, mi chiedevo cosa avrebbero pensato gli altri manifestanti. Erano preoccupazioni inutili, tutti capivano perché avevo accettato”. Quel clima di unità si è sfilacciato dopo un anno di conflitto, le manifestazioni per le strade di Tel Aviv e Gerusalemme sono ricominciate, si sono fatte esistenziali al fianco delle famiglie degli ostaggi che chiedono un accordo a qualsiasi condizione per la liberazione dei rapiti tenuti a Gaza, vivi o morti. “Questa rimane una guerra che sappiamo di dover vincere, non abbiamo scelta. Abbiamo tre obiettivi – Levy li sciorina scandendoli, dando l’idea di averli ripetuti più volte, con insistenza – Hamas deve cadere, gli ostaggi devono tornare, Hezbollah deve andarsene. Se non raggiungiamo questi tre scopi, siamo davvero nei guai. Se Hamas rimane a Gaza, se i nostri cittadini restano imprigionati e Hezbollah avrà ancora posizioni di lancio di missili a ridosso del confine, non avremo più la sicurezza di base per funzionare come paese. Questo è l’unico motivo per cui dopo un anno, nonostante le contestazioni, la società israeliana rimane ancora prevalentemente unita”. Le grida delle famiglie degli ostaggi e di ogni israeliano che considera la vita dei rapiti legata a quella dello stato mettono però il paese di fronte a una scelta che sembra rendere i primi due obiettivi scanditi da Levy, l’eliminazione di Hamas e il ritorno delle persone catturate, in conflitto tra loro. “Abbiamo commesso un errore nel messaggio – riflette Levy – Ci siamo concentrati sul ‘Riportateli a casa’ – la scritta Bring them home si scorge ovunque per le strade di Israele – ed è giusto che i cittadini chiedano al proprio governo di fare tutto il possibile. Però quel messaggio si è scontrato con il mondo esterno: avremmo dovuto dire ‘Lasciateli andare’ (Let them go), perché tutti avrebbero dovuto sentire l’urgenza di forzare la loro liberazione. L’urgenza di fare pressione sui sostenitori di Hamas, il Qatar, la Turchia, l’Iran per costringerli a rilasciare i rapiti. Sfortunatamente i nostri alleati non hanno usato la loro influenza, hanno delle leve che non stanno usando”. Bring them home ha finito per centralizzare tutta la responsabilità sul governo, sia dal punto di vista interno sia internazionale. Uno slogan come Let them go avrebbe invece spostato la responsabilità su chi davvero è l’unico detentore della possibilità di liberare gli ostaggi, Hamas, e sulla necessità di fare pressione per costringerlo. Questo è stato un primo errore di comunicazione dettato anche dalla reazione immediata della società che ha creato attorno alle famiglie degli ostaggi un muro di protezione e di assistenza, curando le lacune, anche emotive, delle istituzioni. Le manifestazioni al grido di Bring them home, viste da fuori, finiscono per colpevolizzare Netanyahu e non Hamas, ma all’inizio del movimento non si poteva prevedere un tale rimbalzo comunicativo.



Levy ha portato una rivoluzione nel modo di comunicare, molti israeliani hanno apprezzato, altri si sono domandati se i suoi messaggi non finiscano per parlare sempre a chi si fida già dello stato ebraico. Comunque ha imposto una cambiamento in un paese che non ha mai prestato troppa attenzione alla sua comunicazione, convinto di essere percepito con antipatia da sempre. I suoi avversari, invece, hanno capito da subito l’importanza del messaggio mediatico, dell’immagine, ma anziché correggere il modo in cui Israele veniva percepito nel mondo, le istituzioni israeliane si sono rinchiuse in una comunicazione fatta di monosillabi, silenzi, poca voglia di spiegazioni. “Credo che Israele stia perdendo la guerra dell’informazione perché non ha mai provato a combatterla. C’è una percezione generale, non del tutto sbagliata, che tutti siano contro di noi, indipendentemente da cosa ci facciano i nostri vicini o cosa facciamo noi. Per qualcuno niente di ciò che fa Israele andrà mai bene e troverà sempre il modo per criticarlo. E’ un dato di fatto e l’attacco ai cercapersone di Hezbollah attribuito a Israele lo dimostra: è stato trovato il modo per far esplodere i dispositivi usati per comunicazioni militari forniti da un’organizzazione terroristica. E’ stato un attacco preciso, un livello di operazione mirata fantascientifica, da James Bond, ed è stato criticato come indiscriminato”. Anche l’uccisione del capo di Hamas, Yahya Sinwar, è stata etichettata come disumana: improvvisamente la mente dell’attacco del 7 ottobre, assassino di israeliani e di palestinesi, chiamato il macellaio di Khan Younis dalla sua stessa gente, era diventato un martire non soltanto per i suoi compagni, ma anche per alcuni commentatori internazionali. Durante la prima e unica tregua, mentre per ogni ostaggio israeliano liberato venivano rilasciati sette detenuti palestinesi secondo le condizioni imposte da Hamas, Eylon Levy rilasciò un’intervista a Sky News dove gli venne chiesto se il dato di sette prigionieri per un ostaggio nascesse dal fatto che per gli israeliani la loro vita valesse di più di quella dei palestinesi. Levy reagì inarcando le sopracciglia, con una mossa che lo rese famoso per la sua mimica e scolpì il momento come uno dei massimi segnali di dove stesse andando l’opinione pubblica internazionale. “Tuttavia non credo che siano tutti contro di noi, abbiamo sostegno, abbiamo amici e soprattutto mi rendo conto che la gente vuole sapere. Se spieghiamo, le persone ascoltano. Noi combattiamo in prima linea una battaglia che riguarda tutto l’occidente, è chiaro che non tutti lo riconoscono, ma c’è chi capisce il coraggio della società israeliana. Non sempre convincerai le persone all’istante, ma rinunciare a parlare soltanto perché sai che l’opinione pubblica è ostile, è sbagliato”.



Levy è stato portavoce del governo per qualche mese, poi si è ritrovato in un affare di famiglia: “A metà dicembre il canale Keshet 12 ha riportato che la moglie del primo ministro voleva farmi licenziare perché aveva scoperto che avevo preso parte alle proteste contro la riforma della Corte suprema. Non ho mai parlato con la signora Netanyahu, ma poi sono stato sospeso, sapevo bene che la ragione non fosse professionale ma politica e mi sono dimesso alla fine di marzo. Non ho mai visto la pistola fumante, perché non ho affrontato la questione con la moglie del premier, ma per quanto ne so, le indiscrezioni di Keshet 12 erano accurate”, così Levy ha deciso di continuare a fare il suo lavoro mettendo su una squadra di comunicatori chiamati “Citizen Spokesperson”. E’ un progetto che unisce sempre nuove figure, si basa su donazioni di privati e ancora un aiuto del governo, come segno del fatto che il lavoro di Levy continua a essere considerato utile. Il senso del comunicare nonostante tutto per l’ex portavoce del governo ha uno scopo: “E’ un errore rinunciare alla guerra dell’informazione. Parlare non serve soltanto a farsi degli amici, a essere meno odiati, serve ad avere gli strumenti che assicurano la nostra sopravvivenza. A Israele non è mai concesso di vincere le guerre, arriva sempre un momento in cui gli viene detto di fermarsi, quindi la fine di una guerra è solo una pausa prima del prossimo attacco. Noi abbiamo bisogno che i nostri alleati ci diano gli strumenti per vincere, invece vediamo che il Regno Unito e la Francia limitano la vendita di armi a Israele mentre sbloccano i finanziamenti all’Unrwa, legano le nostre mani e rafforzano i nemici. Quando Israele subisce un attacco missilistico, riceve una pressione talmente forte da bloccare la ritorsione, come avvenuto con l’Iran. Alla fine il messaggio è che puoi colpire Israele quante volte vuoi e non ti succederà nulla. L’Iran si sente protetto e motivato ad agire di nuovo. La ragione per cui l’opinione pubblica globale conta non è perché voglio che la gente a Roma ci apprezzi, ma perché ho bisogno del sostegno morale, militare, diplomatico, finanziario dell’occidente per resistere. Non possiamo combattere su sette fronti e avere contro il mondo intero”. Israele è entrato nella campagna elettorale degli Stati Uniti, alcune scelte dell’Amministrazione Biden che si è dimostrata molto vicina a Israele avranno un effetto sul voto. Tsahal non ha colpito i giacimenti di petrolio iraniani anche per non intaccare i giorni a ridosso delle elezioni: è stata una richiesta della Casa Bianca. “I nostri alleati devono capire perché vale la pena sostenerci e quindi dobbiamo agire sulla base, fermare la propaganda di chi ha aizzato i campus contro Israele, dobbiamo farlo spiegando. Ci sarà un momento in cui tutti chiederanno scusa: i governi che dopo il 7 ottobre hanno riconosciuto lo stato palestinese, l’Onu, la Croce Rossa che non ha mai visitato i nostri ostaggi. Ora però dobbiamo continuare a parlare di noi al mondo, a insistere, a far capire”.



Eylon Levy è ormai il volto della comunicazione di Israele, difficile da scindere da questa guerra. Quando viaggia viene riconosciuto, per alcuni israeliani è a capo di una rivoluzione comunicativa, per altri ha già stancato. Levy, che non si è mai pentito di aver lasciato il Regno Unito per Israele dopo l’operazione Margine di protezione e il rapimento di tre adolescenti israeliani, spiega quando sente di dover spiegare, attacca quando sente di dover attaccare, si indigna quando si sente indignato: durante la nostra conversazione non ha mai inarcato le sopracciglia.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull’Unione europea, scritto su carta e “a voce”. E’ autrice del podcast “Diventare Zelensky”. In libreria con “La cortina di vetro” (Mondadori)

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