Miki Biasion, un uomo chiamato rally

“Nella prima gara ho capottato. Poi ho imparato ad andare al limite. Non sono mai stato un seguace di De Coubertin: partecipare è importante, ma bisogna vincere”. Parla l’ultimo campione italiano

Se da bambino il tuo sogno era la pista, allora il tuo sogno era rosso come una Ferrari. Ma se sognavi di diventare pilota di rally, allora il tuo sogno si chiamava Lancia”. Il bambino di questa storia si chiama Miki Biasion, un uomo chiamato rally, l’ultimo campione del mondo italiano della specialità alla fine degli anni Ottanta. Oggi a 66 anni Miki che all’anagrafe era Massimo, ma nessuno chiama ormai con il vero nome, è ancora in pista a divertirsi con la nuova Lancia Ypsilon che segnerà, anche se dalla porta di servizio, il ritorno della casa nelle competizioni. Non è qui per correre, ma per far crescere la macchina e cercare nuovi talenti nel neonato Trofeo Ypsilon.

“Da bimbo sotto l’albero di Natale volevo solo modellini di auto. Non so come, ma sono nato con quella passione. Nei miei album ho tante foto di me da bambino con un’automobilina in mano e sul kart a pedali. Non giocavo con i soldatini, le costruzioni o le bambole. Per me esistevano solo le macchinine”, racconta tornando con la memoria a Bassano del Grappa, in provincia di Vicenza, il suo porto di partenza che ancora oggi è il suo porto sicuro. Ai rally è arrivato quasi per caso, dopo lo sci e il motocross, ma finito il primo assaggio si è mangiato tutta la torta: è salito sul podio in 40 dei 79 rally mondiali a cui ha partecipato, conquistandone 17 e arrivando a due titoli mondiali. “Dalle mie parti non c’erano circuiti e le uniche competizioni erano le gare in salita o i rally. Mi sono innamorato dei rally ancora prima di vederne uno. A 8 anni ho vinto il concorso di disegno delle elementari disegnando la Mini che aveva vinto a Monte Carlo, poi ho cominciato ad andare a vederli nella mia zona e da ragazzino con il Ciao sono andato al rally dell’Isola d’Elba. Una follia. E pensare che i miei non mi portavano alle gare anche se mia mamma era stata la prima donna ad avere la patente in Veneto”.

Come tanti piloti anche Miki ha cominciato con i kart. Ma a modo suo: “Avevo montato quattro ruote della Vespa al mio kart per andare in mezzo ai campi. Sono sempre stato un amante della guida di traverso…”. Ma prima delle gare in auto ci sono stati lo sci e le moto. “Poi il mio compagno di liceo Tiziano Siviero, quello che per anni è stato il mio navigatore, ha organizzato un rally abusivo e io l’ho corso con la Renault 5 di mia madre… Poi abusivo per modo di dire, c’erano anche una macchina della Polizia e una dei Carabinieri… Beh io sono finito a testa in giù, capottando per evitare un concorrente finito fuori strada. Quel concorrente era il concessionario Opel di Bassano che mi ha detto: ‘Se vuoi correre, tu ti compri la macchina e io ti offro tutta l’assistenza alle gare’. L’ho comprata con l’aiuto dei miei genitori che ringrazierò sempre perché mi hanno dato la libertà totale di scegliere e mi hanno seguito senza mai mettere becco. Venivano alle gare e stavano quasi nascosti a vedere qualche prova speciale. Non facevano come purtroppo fanno oggi molti genitori che condizionano i figli influenzando anche le loro prestazioni”.

Il pilota da rally è un animale strano. Corre dove non ci sono vie di fuga, ma muri o burroni. Corre fidandosi di quello che gli dice il navigatore seduto di fianco a lui che deve essere altrettanto pazzo, se non di più. “Con Tiziano siamo stati insieme quasi trent’anni. Il braccio e la mente. Per 15 anni abbiamo passato 300 giorni all’anno insieme. Avevamo un rapporto e una complicità particolare. La sua bravura era di capire quando esageravo o al contrario mi addormentavo un po’. Ed è incredibile come capisse meglio di me se in quella prova avevo fatto o no un buon tempo”.

“Non sono mai stato un seguace di De Coubertin: partecipare è importante, ma bisogna vincere. Io già sugli sci e sulla moto da cross ero così. Ma anche quando gioco a carte con mia moglie sono così. Ho un agonismo innato. Il mio primo sogno era di riuscire a correre senza dilapidare i soldi di famiglia. Ho avuto la fortuna dopo 18 mesi ad avere già la possibilità di correre senza rompere il salvadanaio. Dopo due anni ero pilota professionista”. Nel 1983 diventa pilota Lancia e non smette più di esserlo. Riguardando l’album dei ricordi c’è una gara che preferisce a tutte: “Non dico che valga quanto i due Mondiali, ma quasi: la vittoria del Safari Rally in Kenya. Il gruppo Fiat ci aveva provato per 19 anni con la 131, la Fulvia, la Stratos senza mai farcela. Dopo la mia prima partecipazione alla gara nel 1986 ho avuto una discussione con Cesare Fiorio dicendo che dovevamo cambiare approccio. Cesare mi ha dato carta bianca e mi ha detto: fai la macchina come credi per farla vincere… e poi per due anni di fila nel 1988 e 1989 mi sono portato a casa l’elefante di bronzo che è il trofeo del Safari. Un riconoscimento al pilota, ma anche al collaudatore”.

Riguardando la carriera di Biasion non vengono in mente incidenti. In anni in cui in strada si moriva, Miki è sempre riuscito a portare a casa la pelle e l’auto: “Ho vissuto nell’epoca più pericolosa, ma ho avuto pochissimi ritiri per un incidente. Gli incidenti li facevo durante i collaudi quando andavo a cercare il limite della macchina”. Una volta trovati, sapeva come non superarli. “Un pilota deve avere paura per capire fino a dove può spingersi. Poi devi capire che se esci di strada ti prendi uno spavento, ma poi quello spavento passa. Ero molto veloce, ma una delle mie doti principali è stata la strategia. Sapevo quando potevo e dovevo spingere, rispettando e risparmiando l’auto. Quando sei al volante, chiudi la portiera e ti allacci il casco poi hai un solo obiettivo: andare più forte degli altri”. Ed essere ancora qui a raccontare ai giovani come fare è un’altra vittoria.

“Oggi i rally sono cambiati, sono quasi sprint rispetto ai nostri tempi quando stavamo ore e ore in macchina correndo anche di notte. Non dico che oggi siano impiegati, ma… Oggi le auto sono più sicure, ma hanno una velocità in curva impressionante. Noi avevamo più cavalli, ma meno freni, ammortizzatori, pneumatici. Ma il vincente di oggi è come quello di allora. Il pilota fa ancora la differenza a 200 all’ora in mezzo agli alberi sei tu che guidi non è che dai box ti dicono cosa fare. Devi andare forte tu e basta… Si correva di più con il cuore e meno con il computer. Io la mia macchina la accarezzavo, le parlavo e qualche volta la insultavo pure… Non ero uno scassa macchine, ma pretendevo tanto e forse è per questo che oggi restauro le Delta, per restituire quello che mi hanno dato”.

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