Viviamo l’èra triste dell’iperpolitica, fallimentare e miope come l’antipolitica

Ciò che vediamo davanti e intorno a noi è rumore culturale, tumulto di un’umanità depauperata, elementarizzata e vuotamente ripetitiva, la cui intelligenza e capacità di comprensione e valutazione saranno delegate a ogni genere di macchine

Mi capita fra le mani un libretto comodamente riassuntivo che infila tutti i problemi politici e storici dell’ultimo secolo e del nuovo, ne scandisce le diverse fasi e infine dichiara che ora la questione è: “Come descrivere questa nuova èra?”. Ma purtroppo “fare analisi in tempo reale è sempre pericoloso” perché l’èra attuale è sempre “incastrata tra il dettaglio impressionistico e la grande astrazione”. Evidentemente se il titolo di un libro di Paul Sweezy, marxista americano d’antan, poteva essere “Il presente come storia” era perché si pensava comunemente di sapere, proprio da marxisti, che cos’è la storia. Ora non lo si sa più. E anzi si ritiene che credere di saperlo è un fuorviante autoinganno.

La storia è stata una creazione dello storicismo moderno, delle filosofie della storia sette-ottocentesche, quando ci si aspettavano sempre e solo progressi, o l’arrivo della prossima rivoluzione. Ma sembra che da tempo gli stessi storici di professione non sappiano più, non vogliano più saperne di sapere che cos’è nell’insieme la storia, univocamente e globalmente intesa. Ormai il presente non è più storico e storicizzabile, è entrato nella post-storia datata dal 1989. E’ fluidità di avvenimenti il cui continuo accadere non crea più un continuum afferrabile in quanto governato da una logica generale intellettualmente chiarita.

Anton Jager, l’autore del pamphlet a cui ho fatto riferimento all’inizio, dice molto, se non quasi tutto, fin dal titolo e sottotitolo che ha scelto: “Iperpolitica. Politicizzazione senza politica” (NERO editore, pp. 158, euro 15). Ma avverte anche: “La storia e la politica sono ovviamente in corso, ma siamo ancora in grado di dire cosa significano questi termini?”. La chiave per aprire le porte del problema sarebbe il termine e concetto di “iperpolitica”; ma personalmente ho qualche dubbio sulla correttezza di un tale termine. Se per esempio penso alla cultura, alla letteratura e alle altre arti, credo che sia meglio parlare di “post” letteratura e “post” arte, piuttosto che di iperletteratura e iperarte. Nel senso che l’attuale cultura è fuori dalla storia, non ha storia, non fa storia, non entra nella storia.

Mentre dire “post” allude a un fuori, dire “iper” non può che significare puro e semplice eccesso quantitativo, più o meno mucchio, brutale accumulo senza forma, e non superiorità. L’idea di superuomo, per esempio, indicava un superamento intensificato di qualità umane, mentre ciò che vediamo davanti e intorno a noi è piuttosto rumore culturale, mi pare, tumulto di un’umanità depauperata, elementarizzata e vuotamente ripetitiva, la cui intelligenza e capacità di comprensione e valutazione saranno delegate a ogni genere di macchine. La stessa intelligenza artificiale non può che essere il prodotto, l’invenzione di un’intelligenza umana inferiore, non superiore.

Il libro di Jager è in sé interessante, anche se non sempre lineare e chiaro. Succede non di rado che gli studiosi accumulino bibliografie che mostrano in loro competenze maturate, ma l’esposizione risulta formalmente, stilisticamente poco felice e incisiva. Oggi la cosiddetta saggistica è semplicemente “non fiction”, ma non è saggistica nel senso letterario del termine, cioè, per dirla in breve, non è “scritta bene”. E’ soprattutto perché si dice in duecento pagine quanto poteva essere detto in venti o poco più.

Jager, comunque, dispone di una risorsa piuttosto efficace, si tratta dei termini con cui gioca la sua argomentazione: politica di massa (quella del Novecento), post-politica (fra anni Novanta e Duemila), antipolitica (dopo la crisi del 2008) e infine iperpolitica attuale (anni Dieci e dopo). C’è poi il termine “populismo” di destra e di sinistra, a cui si accompagna e sovrappone la figura sempre più ingombrante dell’“iperleader”, caratterizzato da una fondamentale presenza mediatica, che dà coerenza, magari apparente e ambigua, a coalizioni politico-elettorali che di per sé non ne avrebbero. Sono leaderismi alle cui spalle non si vedono più “battaglie campali e lotte di classe organizzate”, quali si sono viste nella prima metà del Novecento, ai tempi della politica di massa.

“Prima dell’iperpolitica di oggi”, dice Jager, “i populisti di sinistra speravano di incanalare il sentimento antipolitico prevalente e indirizzarlo verso la vecchia politica di massa”. Quest’ultima non si sa più che cosa sia nell’epoca, cioè, dello “sciame digitale”. A questo punto soffermarsi a dibattere di fascismo e antifascismo è tempo perso, anche se negli alterchi e nel turpiloquio politico-parlamentare può sempre fare comodo. Più che di definizioni si tratta di mitologie che rimandano alla struttura sociale, alle ideologie e iconografie del secolo scorso. Oggi è semmai più istruttivo parlare di un diffuso “microfascismo”, altro termine che disloca la mentalità fascista più nella società che nella politica, più nella cultura di massa che nell’ideologia. Oggi non è facile distinguere fra il neofascista, il teppista e il tifoso energumeno da stadio. Ma su questo si dovrebbe leggere un altro libro, “Microfascismo. Genere, guerra, morte” di Jack Z. Bratich (Castelvecchi).

Mi sembra che in conclusione, dato che ogni denominazione oscilla concettualmente perché oscilla sociologicamente, nella cosiddetta dopo-storia, tra l’ultimo decennio del Novecento e il Duemila (pandemia, terrorismi, guerre, digitalizzazione, robotica, ecc.) tutti i termini usati da Jager possono convivere e confondersi. C’è una politicizzazione di tutta la vita, in mancanza di una vera politica. C’è un’ubiquità della politica in mancanza di partiti politici strutturati e di un agire politico efficace e tempestivo. Poche le idee e in più superficiali e confuse sulla bocca di tutti. Leader effimeri, elettori assenti e distratti. Iperpolitica come antipolitica e postpolitica. Cultura di massa digitale. Socialità “social” e pseudocomunità che nascono e spariscono. Intanto il crimine individualistico senza contenuto è parallelo al grande crimine organizzato su scala planetaria. Ci vorrebbe un po’ più di politica accorta. Ma la forza politica manca e si ricorre alla guerra.

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