La scrittrice indaga le dinamiche relazionali più che i sintomi e la difficile condizione della donna nella classe media della società austriaca di metà Novecento, con la sua coltre di ipocrisie, false coscienze e atteggiamenti passivo-aggressivi
Si può parlare dell’esistenza di un “delitto originario”? Che cosa si acquatta nei rituali quotidiani e minaccia il loro precario assestamento? Fra le pareti di casa si svolge una cerimonia segreta. Le pareti delimitano uno spazio e, al contempo, ne nascondono un altro; trait d’union fra una stanza e l’altra, i corridoi sono luoghi di apparizioni e sparizioni: su di essi, dentro i buchi delle serrature e durante il rito dei pasti serpeggiano gli strascichi dei non detti, che si annodano alle maniglie e alle gole dei “cari estranei”. Proprio in questo scarto va creandosi un muro invisibile che, se da un lato è chiara metafora di un’incomunicabilità, al contempo costituisce una via di fuga e una protezione dalle ostilità del mondo esterno. Ad ogni modo, quel che resta è una solitudine, colpita da una doppia lacerazione: fra il mondo esterno e interno, quello dei morti e l’altro dei vivi.
E’ in libreria il romanzo “Noi e la morte di Stella” (L’orma, 93 pp., 15 euro) della scrittrice austriaca Marlen Haushofer. Madre e casalinga – scriveva la mattina presto – nasce nel 1920, ovverosia quattro anni prima dell’edizione definitiva della “Psicopatologia della vita quotidiana” di Freud. Indaga le dinamiche relazionali (più che i sintomi) e la difficile condizione della donna nella classe media della società austriaca di metà Novecento, con la sua coltre di ipocrisie, false coscienze e atteggiamenti passivo-aggressivi. Affine nientedimeno che a Ingeborg Bachmann – come nota, a ragione, la sua biografa Daniela Strigl –, scrive in un tempo sospeso: la sua narrazione, ostinatamente lucida, sorveglia le pareti, le soglie, custodisce le estraneità e confessa le impotenze, con la prosa incalzante di una congedata, ospite in casa propria. Le protagoniste dei suoi romanzi sono donne in esilio, affette, come in “La mansarda”, da una sordità.
Non a caso, il titolo del romanzo più noto della Haushofer è “La parete”, scritto nel 1963, ma scoperto solo un ventennio dopo, grazie ai neonati movimenti ambientalisti e al femminismo degli anni Settanta. E’ una parete fredda e liscia, una “resistenza gelida e levigata, in un punto in cui non poteva esservi altro che aria”, simile al “vetro di una finestra”, quella con cui si scontrano, improvvisamente, la protagonista e il segugio bavarese Lince, che si ritrovano così a vivere nello chalet di una riserva di caccia, separati dal resto.
In “Noi e la morte di Stella”, una donna, Anna, osserva dalla finestra di casa un uccellino grigioverde che pigola sul tiglio del giardino, in attesa della madre che non arriva. Sprofondata fra i trapassati, guarda da una lontananza che è, al contempo, sgomento, distopia e velo, confeziona immagini pietrificate dal suo sguardo di Medusa, consegnando i prevedibili scoramenti della patologia quotidiana alle stanze dei legittimi proprietari. La scrittura lenisce il dolore poiché lo trasmuta, lo cristallizza in un’immagine che ha il sapore di una remissione. Sembra annidarsi una colpa, nel dolore. Ma l’essere estranei, separati, è una colpa o una punizione? L’effetto di uno scacco esistenziale o la potenza di un individuo sottratto alla coscienza collettiva? E’ Anna un’assassina o è il marito libertino Richard il vero colpevole? Non vive, in Anna, un’oscurità, una sofferenza non espressa in cerca di una vittima sacrificale o di un “evento” che possa legittimare l’inconscio desiderio di punizione per una vita ammalata, non vissuta? Stella è giovane, ama e soffre, perciò non si può pietrificare. Giammai la morte, ultima parola, potrà dimenticare la “fragranza ineffabile” dei bambini, il volo degli uccelli o lo sbocciare dei fiori.