Nell’elezione presidenziale americana c’è in gioco il futuro dell’Unione europea, prima ancora che quello degli Stati Uniti. Bruxelles tiene il fiato sospeso e pensa a strategie per minimizzare i danni temendo la vittoria del candidato repubblicano, ben “più radicale e brutale” rispetto alla presidenza Biden
Bruxelles. Quattro anni non sono bastati all’Unione europea per prepararsi all’inimmaginabile ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. Gli europei saranno di nuovo con il fiato sospeso, come lo erano stati nella notte elettorale del 2020. Quasi tutti i leader tengono le dita incrociate per Kamala Harris. Il premier ungherese, Viktor Orbán, ha detto di tenerle incrociate per Trump, dopo avergli parlato al telefono giovedì per fargli “i migliori auguri”.
Nell’elezione presidenziale americana, secondo Bruxelles, c’è in gioco il futuro dell’Ue, prima ancora che quello degli Stati Uniti. Perché le istituzioni comunitarie e i ventisette stati membri non solo non si sono preparati a Trump, ma in gran parte rifiutano di accettare il cambiamento radicale avvenuto sin dagli anni di Barack Obama nella politica americana. Il candidato repubblicano è di gran lunga lo scenario peggiore per gli europei a causa della guerra della Russia contro l’Ucraina, del rischio di ritiro degli Stati Uniti dalla Nato e delle guerre commerciali transatlantiche che potrebbero segnare l’inizio della sua Amministrazione. La vittoria di Harris sarebbe un baluardo contro le onde populiste e autoritarie che negli ultimi anni hanno ripreso a gonfiarsi a livello globale. Ma, come dimostrano i quattro anni di Joe Biden, la presenza di un democratico atlantista alla Casa Bianca non rende gli Stati Uniti più generosi con gli europei.
La luna di miele tra gli europei e Biden è durata poco. All’inizio del suo mandato, ancora nel pieno della pandemia di Covid, il presidente democratico ha rifiutato di togliere le restrizioni alle esportazioni di vaccini verso l’Europa. Il caotico ritiro dall’Afghanistan nell’agosto del 2021 ha colto di sorpresa e irritato gli alleati europei. L’aggressione contro l’Ucraina ha ricompattato i ranghi, ma solo fino a un certo punto. L’Inflation Reduction Act adottato dall’Amministrazione Biden nell’agosto del 2022 non è stato vissuto solo come un atto di protezionismo in stile “America first”, ma anche come un tentativo di sottrarre all’Ue investimenti e imprese chiave per la transizione climatica. Nel frattempo, la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, nonostante i suoi ottimi rapporti personali con Biden, non è riuscita a firmare una pace commerciale tra le due sponde dell’Atlantico, limitandosi a una tregua sui dazi su alluminio e acciaio e altri conflitti. La Francia ha subìto la “pugnalata alle spalle” dell’alleanza Aukus, che ha compromesso la vendita dei suoi sottomarini all’Australia. I paesi dell’Europa dell’est e del nord (con l’eccezione di Ungheria e Slovacchia) si lamentano che gli Stati Uniti (come la Germania) non stanno facendo tutto quel che possono per aiutare l’Ucraina a vincere la guerra.
Rispetto a Biden (o a Harris presidente) “Trump sarà più radicale e brutale”, spiega al Foglio uno dei leader che siedono attorno al tavolo del Consiglio europeo, parlando sotto condizione di anonimato. Ma è nelle relazioni tra Ue e Stati Uniti che “c’è un cambiamento di paradigma. Che sia Harris o Trump, ci saranno punti simili. Il protezionismo americano non cambierà con Harris. La priorità della Cina e della regione dell’Indo-Pacifico non cambierà con Harris”, spiega questo leader, che esprime una speranza: “Se Trump sarà eletto, almeno costringerà gli europei a essere lucidi e a smettere di prendere i nostri sogni per la realtà”. Il presidente francese, Emmanuel Macron, è già pronto a rilanciare la sua campagna per la sovranità europea e l’autonomia strategica, sostenendo che l’Europa deve prendere il suo destino in mano. Il problema è che le stesse cose erano state dette nel 2016 dopo la prima elezione di Trump, e sono state ridette dal 24 febbraio 2022 dopo l’invasione su vasta scala dell’Ucraina. Il risveglio non c’è stato, o almeno non in tutta l’Ue. Il governo di Olaf Scholz in Germania continua a incrociare le dita come faceva quello di Angela Merkel, convinto che alla fine Trump non abbia interesse a imporre dazi al 20 per cento agli europei o a minare la credibilità delle alleanze americane nel mondo chiudendo l’ombrello di sicurezza garantito all’Europa.
I capi di stato e di governo discuteranno dei risultati delle elezioni presidenziali americane a Budapest in una cena il 7 novembre a margine del vertice della Comunità politica europea e del Consiglio europeo informale. Orbán è pronto a “stappare lo champagne” per Trump, come ha ammesso lui stesso. Altri leader, tra cui Giorgia Meloni, sono sospettati di essere pronti a volare a Washington per onorare Trump in nome della stessa ideologia, presentandosi come “ponte” per salvare le relazioni transatlantiche. La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha istituito un gruppo di lavoro (ribattezzato “task force Trump”) per preparare le risposte a una guerra commerciale. Il suo capo di gabinetto, Björn Siebert, ha iniziato una serie di colloqui bilaterali (i confessionali) con gli ambasciatori dei ventisette stati membri presso l’Ue. L’obiettivo rimane una soluzione negoziata, perché gli europei (e in particolare i tedeschi) vogliono continuare a credere che Trump sarà pronto a fare un “deal” che sia vantaggioso per entrambi. La Nato ha nominato un nuovo segretario generale, Mark Rutte, che è convinto di poter sedurre Trump riconoscendo che ha ragione sull’aumento della spesa o la minaccia della Cina. E’ una strategia simile a quella che gli europei seguirono durante il primo mandato Trump. Ma da allora “tutto è cambiato”, dice un diplomatico scettico riguardo al livello di preparazione degli europei: “Trump è cambiato ed è più radicale. La guerra è tornata in Europa. La Cina è più pericolosa e aggressiva. Gli unici che non sono cambiati sono gli europei”.