Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa
Al direttore – E’ la somma che fa il totale, diceva il grande Totò. Non sempre è vero. Il pacifista collettivo, ad esempio, trascende la somma dei pacifisti individuali. Il pacifista individuale può essere un arruffapopoli, un contaballe per tornaconto elettorale, un prezzolato da potenze straniere, ma anche un gandhiano, un religioso che rifiuta per principio l’uso delle armi, un sincero fautore della kantiana pace perpetua; e anche un ministro o un leader di partito che, per calcolo politico o confidando nella scarsa memoria degli elettori, tacciono ipocritamente sulla presenza delle truppe nordcoreane nel Donbas. Sono gli stessi che fecero, se è consentito il francesismo, un mazzo così a Macron quando propose di inviare un contingente militare europeo in Ucraina. Ebbene, cosa unisce tutte queste figure, pur così diverse sotto il profilo etico e culturale, che calcano il palcoscenico nazionale? Lo spiegò da par suo Gaetano Salvemini poco più di ottant’anni fa: “[il pacifista collettivo] ha un grande vantaggio: che non deve studiare nessun problema internazionale nei suoi elementi spesso terribilmente complessi. E’ sufficiente per lui coltivare nella testa e nel cuore una sola idea e un solo sentimento: l’opposizione alla guerra. Egli ha fatto voto di non capire niente, e per mantenere il suo voto non ha bisogno di affaticarsi il cervello” (“Lezioni di Harvard”, 1943).
Michele Magno
Sempre Salvemini, a proposito dei campioni della finta neutralità: “Noi non possiamo essere imparziali. Possiamo essere soltanto intellettualmente onesti: cioè renderci conto delle nostre passioni, tenerci in guardia contro di esse e mettere in guardia i nostri lettori contro i pericoli della nostra parzialità. L’imparzialità è un sogno, la probità è un dovere”.
Al direttore – Ha ragione il Foglio del 1° novembre nel sostenere che bisognerebbe guardare con favore ai primi segnali di ripresa della Germania e della Francia per gli sbocchi delle nostre merci, anziché – sostengo io – indugiare in una “Schadenfreude”, una sorta di soddisfazione per le disavventure altrui, in questo caso perché la potente Germania è in recessione. Cosa che significa, però, un danno anche per l’Italia (ed è in agguato la “regola” di Carlo Maria Cipolla sulla stupidità). D’altro canto, i raffronti tra paesi vanno fatti con approfondimento e cautela. Le difficoltà per la Germania non sono dello stesso tipo di quelle che l’Italia sarebbe costretta ad affrontare, data la diversità sostanziale dei “fondamentali” delle due economie. Giusto, dunque, tifare per la ripresa delle economie in questione e sostenere la necessità di misure anche europee per l’intera area. Con i migliori saluti.
Angelo De Mattia
Giusto. Così come è giusto ricordare un tema che non dovrebbe sfuggire allo sguardo dei legislatori. I nemici di Giorgia Meloni, a livello politico, sono fragili, disorganizzati, poco incisivi, poco temibili. Il governo, però, un nemico vero, di cui deve tenere conto e che potenzialmente può presentarsi come un avversario in grado di erodere il consenso della maggioranza, ce l’ha. E quel nemico è l’economia. Fino a oggi per Meloni tutto è filato liscio: crescita, occupazione, spread. Ma se il trend dovesse invertirsi e se i segnali negativi, dall’occupazione alla crescita fino alla produzione industriale, registrati nell’ultimo trimestre dovessero avere una loro continuità, cosa che nessuno si augura, l’orologio di Meloni potrebbe cominciare a fare tic tac.
Al direttore – Nella lettera della senatrice di Italia viva, Raffaella Paita (il Foglio 01-11), la ragione prima della sconfitta del “campo largo” nel voto ligure è stato il veto su Renzi. E in parte è così, ma solo in parte. Certo, nella missiva ci sono anche degli accenni all’assenza a sinistra di una politica intesa come “progetto credibile di governo” e aggregazioni umano-politiche collettive. Ma il cuore della lettera resta, ancora una volta, l’identificazione del “… brand fortemente riformista…” e del centro con Italia viva e il suo leader. Insomma, rispunta sempre quella sorta di populismo personalistico interiorizzato diffusosi, quasi fosse un virus, in gran parte della politica italiana da molto tempo. Anche l’oramai remota linea della “rottamazione” di Renzi nei riguardi dei vecchi e burocratici gruppi dirigenti del Pd e della sinistra di allora fu, a suo modo, forma dell’antipolitica e del populismo interiorizzato; di cui poi Renzi diventò ed è oggi vittima – con i veti personali nei suoi riguardi – dopo esserne stato in precedenza uno dei co-frequentatori.
Alberto Bianchi
Al direttore – Con riferimento all’articolo di Antonucci sul Foglio del 31 ottobre e al suggerimento di un ufficiale dei Carabinieri che chiede l’adozione di una circolare da parte del capo della Polizia Vittorio Pisani per “richiamare al rispetto delle norme già previste…” rilevo che essendo le norme già esistenti, prima di sprecare tempo con una circolare, sarebbero più opportuni – ci aspettiamo – provvedimenti disciplinari anche a carico di chi non ha effettuato i controlli previsti. Mi sembra il minimo!
Renato Goretta