Il peso di Milan-Napoli sul campionato

La vittoria della squadra di Conte ha un peso ben differente rispetto a quelle dell’Inter e dell’Atalanta, le principali contendenti per il titolo, nel proseguo di questa Serie A

Le conferenze stampa degli allenatori di Serie A, in specie prima della partita, costituiscono ormai un genere letterario a sé. Lungi dallo spiegare le tattiche alla tifoseria e all’opinione pubblica (per interposti media), figurarsi dare la formazione – se non rarissimi casi, quando non giocano al gatto col topo annunciando solo due nomi – i mister si dividono tra quelli che parlano all’americana riguardo ai ruoli da ricoprire in campo: “Tizio gioca da 6, ma può fare anche l’8”, si legge, e la memoria va a quando i numeri non solo erano ordinati, ma significavano anche qualcosa. E poi ci sono quelli che lanciano appelli ai propri uomini a “vincere le partite sporche”, a “segnare i gol sporchi”, “lasciar perdere il fioretto” cioè la ricerca del risultato attraverso l’organizzazione del gioco, unica arma per chi in rosa non si ritrova i campioni capaci di decidere un match da soli. È un’involuzione culturale, mentale, che va di pari passo con quella retrograda in cui sta incappando il paese, volente. Esiste anche una terza categoria di tecnici da conferenza, ristretta quasi al solo Thiago Motta, le cui evoluzioni retoriche per non dire niente sfiorano il teatro dell’assurdo, per quanto siano fuori luogo rispetto alla contemporanea èra dell’informazione: disertare queste note stonate può essere risolutorio.

La giornata infrasettimanale, peraltro, ha offerto tale e tanto costrutto che aggrapparsi alle parole confezionate ne riduce la portata: Milan-Napoli, a fine campionato, potrebbe diventare un incontro dal valore storico, al di là dell’occasionale gratuità di Dazn. La squadra di Antonio Conte, sempre in controllo e dalle notevoli qualità nel palleggio, appariva come la Juventus di Marcello Lippi, e la sua vittoria ha un peso ben differente rispetto a quelle dell’Inter e dell’Atalanta, le principali contendenti per il titolo. Del resto, in estate, l’allenatore salentino e il difensore Alessandro Buongiorno hanno preso la via del sud, quando avrebbero potuto dirottarsi a Milanello, e lo stesso Diavolo avrebbe potuto inserirsi nella corsa a Scott McTominay: eppure le scelte sono state differenti, di conseguenza “come ti fai il letto, così dormi”, di prodiana memoria. Si aggiungano gli infortuni, la difesa di sole riserve (alcune improponibili), il centrocampo sconnesso di cursori privi di regista – Youssuf Fofana mette ordine ma non ha la profondità del passaggio, Yunus Musah e Ruben Loftus Cheek ricordano Alessandro Florenzi ma diversamente fisicati – e gli straordinari chiesti a Mike Maignan come ad Álvaro Morata in impostazione, ne risulta il quadro della prima big ad “uscire” dalle velleità di scudetto, checché appunto ne pensi Fonseca.

La stessa gestione del capitano è una nota stonata: che siano Rafael Leão o Theo Hernández, Matteo Gabbia (quanto è mancato martedì) oppure l’estremo difensore, il fatto stesso che non ne venga riconosciuto uno unico seguendo regole interne standard – ad esempio, il decano in rosa – dà l’idea di confusione. Per quanto il concetto di capitano sia retaggio assai novecentesco e sempre meno attuale, con squadre stravolte ogni sei mesi, e pure dalle parti della Juve non ci sia chiarezza di fascia tra Andrea Cambiaso, Federico Gatti e chissà chi altri. L’unica luce viene dal Portogallo, perché sono sempre più a notare come Francisco Conceiçao, lungi dal ricordare le movenze del padre, rinfreschi il sogno e le vibes di un Cristiano Ronaldo giovane. A patto di non dirlo in conferenza stampa e di non offrirgli i galloni da capitano…

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