La piccola Europa tra elezioni americane e nuove potenze

Tornare a essere grandi è un’ambizione che si vede in modo grottesco nel trumpismo, ma che riguarda molti altri paesi: il caso più tragico è quello della Russia di Vladimir Putin. La priorità per l’Unione europea è di farsi stato

Tra pochi giorni gli Stati Uniti saranno chiamati a votare per due candidati che non potrebbero essere più diversi e i cui sostenitori sono ferocemente divisi. L’esito è incerto, e vi sono segni che sembrano favorire Donald Trump, a cominciare dal malessere dei maschi, specie ma non solo bianchi, privi di istruzione superiore. Anche per noi italiani (sarebbe bello poter dire italo-europei, ma questo traguardo – se mai sarà raggiunto – è significativamente molto lontano), come per gli europei nel loro complesso, quell’esito avrà importanti e diversissime conseguenze. Trump e Kamala Harris, insomma, non sono affatto la stessa cosa e la mia preferenza personale è netta, anche per motivi di interesse europeo, rappresentati per esempio dalla possibilità di guadagnare tempo in una transizione già difficile e dolorosa verso un mondo nuovo e meno “amico” di quello che andiamo perdendo da qualche decennio.

Eppure vi è un tratto che accomuna la retorica, e non solo, dei due candidati, un tratto rappresentato da due versioni, certo diversamente declinate, del tradizionale “America first”. Al Make America Great Again che elettrizza i più ardenti sostenitori di Trump, e all’America First Institute che lo appoggia, corrisponde lo iu-es-ei, iu-es-ei ritmato a squarciagola dai delegati democratici alla convention che ha consacrato Harris. Sono parole che, almeno dalla presidenza Obama, portano con sé un’immagine della Cina come nemico della grandezza americana e una parziale ma netta rivendicazione di forme di protezionismo economico e interventismo statale a favore dell’industria americana, specie ma non solo in funzione anticinese – un’immagine e delle politiche che tanto Trump quanto Joe Biden e Harris, con tutte le loro differenze, hanno fatto proprie.

Il nazionalismo e l’eccezionalismo statunitensi hanno naturalmente una storia lunga e radici anche nobili, che si rifanno all’idea della terra della libertà e della democrazia. Ma la loro recrudescenza e le loro forme nuove illuminano piuttosto oggi l’incapacità di fare i conti con la fine del secolo americano e con l’ascesa di una nuova superpotenza, cresciuta tra l’altro, grazie all’appoggio di Reagan, Bush sr, Clinton e Bush jr alla Cina di Deng e alle sue politiche. Che sia difficile gestire un declino anche relativo è cosa normale, ma l’intensità della reazione americana a esso, soprattutto ma non solo nella sua incarnazione Maga, sorprende, specie se si pensa alla crescita economica degli Stati Uniti negli ultimi decenni, una crescita tanto diversa dalla stagnazione relativa europea e soprattutto italiana. Se non si ricordasse che l’economia è molto ma non è tutto, e che in società dove la sopravvivenza è assicurata e il benessere diffuso, identità e rappresentazioni della realtà possono contare più della “realtà” stessa perché ne sono a loro modo una parte importante, ancor più sorprendente risulterebbe la componente anti immigrazione che innerva quella intensità, specie ma non solo nella versione trumpiana (di controllo dei confini parla ormai anche il Partito democratico).

I motori principali di questa crescita tanto differente da quella europea sono stati infatti l’innovazione scientifica e tecnologica e le decine di milioni di nuovi immigrati da tutto il mondo che hanno raggiunto gli Stati Uniti grazie alla riforma dell’immigrazione del 1965. Allora il 90 per cento degli statunitensi era composto da bianchi di discendenza europea e il 10 per cento da neri discendenti dalle vittime della tratta schiavistica. Oggi i primi sono al 60 per cento, i secondi sono diminuiti (anche se il numero dei neri è leggermente aumentato per via dell’immigrazione da Caraibi o dall’Africa), e c’è un 30 per cento di nuovi cittadini che hanno alimentato l’economia americana e di cui Harris, ma in parte anche Obama, sono dei rappresentanti. Fa a questo proposito impressione ricordare che Reagan, supposto primo leader della nuova destra, lasciò nel 1989 la Casa Bianca con un discorso (“Open doors for the American dream”) che esaltava l’immigrazione come parte integrante e fondamentale del sogno americano, e confrontare le sue parole con quelle usate oggi dal suo partito. È un confronto che sottolinea l’importanza dei meccanismi innescati da certi fenomeni quando superano determinate “soglie”, soglie di cui è quindi cruciale prendere coscienza, tenendo presente che esse variano in rapporto all’età dei “nativi” e al loro sperimentare condizioni di perdita o aumento di status.

Fatto sta che finita la presidenza di Bush jr, che si potrebbe definire l’ultima del secolo americano anche per i tragici fallimenti del suo sogno di esportare la democrazia con la forza, anche sotto la spinta della crisi del 2008 Obama diede coerenza alla spinta anticinese già serpeggiante nel paese. Il suo Maga era, legittimamente, concentrato su grandi riforme tese a rinnovare il paese, ma il focus su di esse contribuiva all’indebolimento di un occidente già in crisi, mentre il rifiuto di riconoscere alla Cina uno status ormai innegabile favorì, e ancora favorisce, l’instabilità e il conflitto globale. Lo faceva anche perché questo rifiuto è andato di pari passo con il relativo abbandono di chi combatteva Assad in Siria, l’immobilismo di fronte all’invasione russa della Crimea del 2014 e le difficoltà opposte alla fornitura di armi all’Ucraina (difficoltà timidamente superate da Trump), politiche poi culminate nella ritirata di Biden da Kabul. Se la politica nei confronti di Mosca è poi per fortuna cambiata anche grazie allo stesso Biden, la svolta anticinese è stata invece seguita sia da Trump sia dal suo successore, ed è oggi presente nei discorsi di Harris. Essa ha dietro un secondo rifiuto, quello di ammettere la fine di un “secolo americano” che non si era sentito oscurato dal riconoscimento concesso nel 1970 da Nixon alla chiaramente inferiore Unione sovietica brežneviana, un riconoscimento che rese poi possibile gestire in modo pacifico il tracollo del sistema socialista.

Spiegare questo secondo rifiuto, e l’accendersi di passioni Maga di tipo nuovo, solleva problemi interessanti: c’entrano sicuramente la crescita economica e il primato scientifico e tecnologico, e c’entra il fatto che da un certo punto di vista gli Stati Uniti sono oggi in una situazione paragonabile a quella europea degli anni Settanta del Novecento. Si tratta di una società e di un’economia ancora fortissime, piene di risorse, in cui il livello delle imposte può ancora e grandemente aumentare, dando concretezza a ambiziosi progetti riformatori, e in cui grazie a una straordinaria immigrazione la crisi demografica, pur presente, non appare ancora in tutta la sua drammatica rilevanza, come dimostrano l’arretratezza e la pochezza intellettuale delle risposte date da buona parte della sinistra americana a chi solleva il problema (vale la pena di leggere, a questo proposito, le lettere ricevute dal New York Times dopo aver pubblicato un pezzo che poneva il problema, in “Should We Be Worried About Population Decline?”, pubblicato lo scorso 24 agosto). Insomma, prima di affrontare la realtà con cui noi europei siamo costretti a fare i conti tutti i giorni, gli Stati Uniti hanno di fronte lunghi decenni di opzioni che noi non abbiamo più, e date le loro risorse non è detto che essi si troveranno in futuro in una situazione simile alla nostra.

Ma col Maga c’entra probabilmente anche il fatto che, come insegna il Talmud, “non vediamo le cose come sono; vediamo le cose come siamo”. E sarebbe forse meglio dire come siamo stati e crediamo ancora di essere, perché come sanno specialmente gli anziani fare i conti con la realtà del presente non è facile, né intellettualmente né psicologicamente (non lo è infatti neanche per giovani che pure il presente anche inconsciamente incarnano e rappresentano). In questa prospettiva va tenuto presente che buona parte delle classi dirigenti e della popolazione statunitense si è formata dopo la grande e vera, ma anche illusoria, “vittoria” del 1991 e nei due decenni a essa successivi, in cui gli Stati Uniti sono stati davvero l’unica superpotenza del mondo, ignorando che la storia è sempre andata e va sempre molto veloce, e dove vuole.

Quest’ultima osservazione vale in generale per tutti quelli che hanno un grande passato ed è questo il caso di quello che non è sbagliato – se lo si fa criticamente – chiamare il “mondo bianco”, vale a dire l’insieme di imperialismo occidentale (statunitense ed europeo) e socialimperialismo sovietico contro cui negli anni ’60 Mao incitava i popoli di colore a ribellarsi. I dati parlano chiaro: come scrisse allora uno storico francese, nel 1975 “i paesi bianchi di ceppo europeo più il Giappone, il 40 per cento delle terre emerse, un miliardo di uomini”, costituivano circa un quarto della popolazione mondiale e rappresentavano “l’80 per cento dei mezzi, delle risorse, in una parola, della potenza”. Da allora il declino in termini di quota della popolazione è impressionante e notevole quello in termini di produzione, reddito e livello dei consumi, un mutamento del peso relativo delle diverse parti del pianeta che è alla radice del mondo multipolare di cui si parla. È un mutamento che si iscrive nel declino della supremazia europea cominciato prima della Prima guerra mondiale ma accelerato da essa, anche se l’Europa riuscì poi a riprendersi grazie al sostegno di Stati Uniti i cui abitanti venivano come sappiamo per quasi il 90 per cento dal vecchio continente ed erano perciò ancora un’Europa fuori d’Europa.

In particolare, poiché ci vediamo come eravamo, il declino genera pulsioni di rivincita e di rivalsa che sono tanto più forti quanto più quel passato è recente e quella grandezza “grande”. Non a caso, fenomeni vistosi e peculiari di Maga si sono affermati nei tre veri vincitori del secondo conflitto mondiale (la Francia sconfitta e invasa dai tedeschi è un vincitore atipico). Il fenomeno più blando si è verificato nel Regno Unito, il cuore di un impero britannico che già nel 1945 Churchill riteneva un asinello tra due cavalli di razza, Stati Uniti e Unione sovietica. Esso si è incarnato in una Brexit che si riallaccia al passato di un’isola che ha a lungo guardato al mondo e lo ha dominato fino a poco più di un secolo fa, tenendo dopo Napoleone l’Europa continentale sotto controllo anche grazie alla collaborazione con l’impero russo. Il tentativo di guardare di nuovo a quel mondo e di smettere di dipendere, “provincialmente”, dall’asse franco-tedesco su cui si regge Bruxelles è stato probabilmente un atto autolesionista, legato all’incapacità di analizzare con freddezza la nuova realtà del mondo, e dello stesso Regno Unito. Ma esso ha senza dubbio anche espresso il desiderio di tornare ad essere come non si era più, e non è escluso che la scelta dell’apertura possa un giorno dare dei frutti, anche se sembra più probabile che essa acceleri un declino che Londra condivide con l’Europa.

Il caso di Maga più tragico e terribile, prima di tutto per gli altri, ma quasi sicuramente anche per la stessa Russia, è quello si sta sviluppando da circa vent’anni in una Mosca educata già ai tempi sovietici al culto della conquista di Berlino, Varsavia e Praga. Pur essendo dovuto a cause essenzialmente interne (ricordiamo che agli inizi degli anni Ottanta del Novecento l’attesa di vita dei maschi sovietici era di circa 15 anni inferiore a quella occidentale, e gli aborti superavano di diverse volte le nascite), il tracollo dell’Urss, infinitamente più drammatico del lento declino europeo e di quello relativo statunitense, ha nutrito il violento, velenoso e irrealistico desiderio di fare la Russia di nuovo grande di Vladimir Putin, anticipato in sedicesimo, e con differenze importanti, da quello del serbo Miloševic. Al di là delle strade aggressive e omicide da esso imboccate e delle sofferenze umane che ha già provocato (ricordiamo che la sola aggressione all’Ucraina ha fatto sinora circa un milione tra morti e feriti), il tentativo di rifare un “mondo russo” stride con il peso tecnologico e demografico di una Russia che ha un decimo della popolazione indiana o cinese e produce semilavorati e materie prime.

Quel tentativo ha quindi tratti anche grotteschi, come lo furono quelli di altri nazionalismi dalle ambizioni smisurate (tra cui il nostro), ma non per questo meno tragici per gli altri, ceceni, georgiani e ucraini prima di tutti, ma anche noi europei e gli stessi russi. Diversi fattori rendono tuttavia difficile che il prezzo che Mosca sarà prima o poi chiamata a pagare venga presto esatto. Vi si oppongono l’arsenale nucleare russo, rafforzato nel 1993 dalla decisione di far consegnare a Mosca gli arsenali atomici ucraino e kazaco presa in una Washington che ragionava ancora, comprensibilmente ma ingenuamente, in termini bipolari, un arsenale la cui presenza basta a “calmierare” il sostegno militare statunitense e europeo all’Ucraina; l’appoggio cinese a Putin, a sua volta alimentato dalla attraente e realistica prospettiva di sottrarre al vecchio occidente le straordinarie risorse naturali russe; e infine i proventi di queste stesse straordinarie risorse, soprattutto ma non solo energetiche, che rendono possibile alla Russia affrontare scosse economiche e sociali che scuoterebbero altri paesi.

Ma sono oggi all’opera nel mondo anche altri Maga, prima di tutto quello cinese e quello indiano che guardano a passati più lontani di quello della “grande” Europa padrona del pianeta ma altrettanto gloriosi del suo. Malgrado le notevoli differenze che li separano, si tratta infatti degli altri due principali “fuochi” della civiltà umana (quello del medio oriente è un caso più complesso e comunque legato al Mediterraneo e all’Europa). E se la Cina di Xi Jinping pensa di poter tornare a occupare il centro del mondo, una posizione che ritiene ingiustamente strappatagli dal mondo bianco nel XIX secolo, l’India prima che a una rivalsa su un “occidente” che sa avergli dato molto oltre che imposto un pesante fardello, pensa prima di tutto a quella sui musulmani che la sottomisero secoli prima dell’arrivo degli europei.

L’ascesa di questi due nuovi giganti, che contano circa un miliardo e mezzo di abitanti ciascuno (anche se l’ex Raj britannico potrebbe essere coinvolto da nuove “partizioni” dopo quelle che hanno portano al distacco della Birmania, del Pakistan e infine del Bangladesh), ha fatto emergere con nettezza la forte, ancorché banale verità di quella che si potrebbe chiamare la “legge di Charles Henry Pearson”. Uno dei più acuti analisti britannici di fine XIX secolo, questi vide già allora con chiarezza che in un mondo dove istruzione, conoscenze e competenze si diffondevano in modo grosso modo uniforme, non c’era in futuro spazio per il dominio di piccoli paesi, come quelli europei, che dovevano la loro posizione al monopolio sulla rivoluzione scientifico-tecnologica.

È quindi lecito chiedersi cosa vuol dire oggi questo per la nostra Europa continentale “napoleonica”– che a questo è ridotta, speriamo non per sempre, l’Unione europea dopo aver perso Londra e Mosca. Per essa e i paesi che la compongono è difficile sognare e perseguire un ritorno alla grandezza perché il continente nel suo insieme e i suoi stati presi singolarmente vengono tutti, Francia compresa, da un secolo di sconfitte, certo mitigate dai “miracoli” del secondo dopoguerra. Tutte o quasi le loro capitali sono state occupate da uno o due eserciti invasori e la decolonizzazione ha poi fatto giustizia di un plurisecolare dominio sul mondo. Il fenomeno ha quindi preso finora fattezze peculiari: in Italia, per esempio, quelle innovatrici del Berlusconi che prometteva un nuovo, grande miracolo italiano. Ma, anche a voler escludere un Maga tedesco, che è difficile augurarsi, un grande passato chiuso da grandi sconfitte può anche nutrire stagioni di chiusura e depressione altrettanto autolesioniste, ancorché meno aggressive, dei tentativi di tornare potenti.

Vedere e accettare la realtà, cioè vivere al meglio per come si è, aprendosi al mondo e al futuro è l’unica risposta sensata, e proporre di diventare saggiamente “vecchi” non è la soluzione giusta, perché le popolazioni (un termine che preferisco a popoli) europee, e non solo loro, non sono super-individui con una sola età ma aggregati formati da milioni di persone diverse, tra cui oggi molti vecchi ma anche tanti giovani che hanno il diritto di essere e sentirsi tali. Piuttosto, nel mondo intravisto a fine XIX secolo da Pearson e che oggi è sotto i nostri occhi, un’Unione europea capace di farsi più stato è l’unica ragionevole priorità, che tutti sono in grado di capire, fosse solo per evidenti ragioni di scala e per i pericoli che si corrono a navigare su piccoli vascelli un mare popolato da giganti. La sua costruzione, anche ma non solo in campo militare, è quindi la vera, seria sfida per una rinascita lontana dai velenosi desideri di tornare grandi. Non è detto ci si riesca, perché farlo è molto più difficile che capirlo, e naturalmente, per tornare da dove abbiamo cominciato, un’eventuale vittoria di Trump renderebbe la cosa certo più urgente, ma ancora più difficile. Ma sarebbe fondamentale almeno provarci.

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