Su quel ring nella jungla è accaduto qualcosa che avrebbe cambiato per sempre i contorni agonistici e spettacolari non solo della boxe, ma probabilmente della storia dello sport novecentesco
Un match di pugilato vive di tanti momenti emotivi, e questo è uno dei più sublimi: nella calma irreale che precede la tempesta c’è l’attesa di una fine annunciata. Siamo a p. 89 di Giù la testa (Hoepli Editore, 240 pp. 24,90 euro), il bel libro che Claudio Colombo, monzese, oltre trent’anni di illustre servizio a scrivere di sport – atletica e pugilato in particolare, ma anche di molto altro – per “Corriere d’Informazione”, “Gazzetta dello Sport” e “Corriere della Sera” – ha scritto sul mitico match di pugilato tra Muhammad Ali contro George Foreman di cinquant’anni fa. Sul ring di Kinshasa, già Léopoldville, stava per accadere qualcosa che avrebbe cambiato per sempre i contorni agonistici e spettacolari non solo della boxe, ma probabilmente della storia dello sport novecentesco. E quella “fine annunciata” si porta con sé un’eco che parla non solamente dell’esito di quel mitico match.
Era il 30 ottobre 1974. Nel cuore dell’Africa nera ci si apprestava ad alzare il palcoscenico su un evento sportivo molto più vasto del perimetro di quelle dodici corde. Certo, lì sopra si stavano per fronteggiare i due migliori e potenti pugili dell’epoca per il titolo di mondiale dei pesi massimi: il detentore, Big George Foreman, un miracolo di muscoli e potenza, imbattuto per una serie infinita di match; e lo sfidante, Muhammad Ali, già Cassius Clay, e forse non più così convinto di essere “The Greatest”, l’atleta che quindici anni prima si era preso la scena della boxe mondiale come una rockstar irriverente e ribelle.
Erano successe tante cose nel frattempo, tra cui l’adesione alla religione musulmana e la militanza per il pensiero e la politica rivoluzionaria del Nation of Islam prima e di Malcolm X poi. Per quelle sue idee Clay, divenuto Ali, non aveva esitato a mandare a ramengo la carriera di divo del ring pur di opporsi alla chiamata alle armi in Vietnam. Così nel 1967 gli avevano ritirato la licenza di pugile e revocato il titolo mondiale che deteneva dal 1964. Dopo sette anni di esilio, ora Ali, come un cavaliere di altri tempi, ritornava alla ricerca, e alla conquista, del Graal che continuava a sentire suo. Doveva però vedersela con una delle più spaventose macchine da pugni della storia del pugilato: il texano Foreman. Il fatto che i due campioni afroamericani si battessero nel bel mezzo della foresta equatoriale africana – tanto da battezzare l’evento con il fortunato claim di The Rumble in the Jungle, la “zuffa nella giungla” – aveva a che fare con due personaggi tanto visionari quanto discussi: Don King, agli esordi di una carriera di manager pugilistico che nei trent’anni a venire gli avrebbe procurato celebrità e ricchezza inferiori solo alle innumerevoli controversie legali; e Mobutu Sese Seko, il despota cleptomane che per oltre tre decenni aveva tenuto sotto il suo folle tallone l’allora Repubblica democratica del Congo, da lui ridenominato Zaire.
Al match di Kinshasa assistettero 60.000 spettatori; la diretta via satellite fu vista da oltre un miliardo di persone, diventando l’evento televisivo più seguito della storia fino a quel momento storico. Intorno a quell’incontro Norman Mailer, presente a bordo ring, scrisse uno dei più bei libri mai scritti sul pugilato, il formidabile romanzo-reportage The Fight, ovvero La sfida, pubblicato l’anno seguente. Nel 1996 Leon Gast realizzò, dopo una preparazione lunga ventidue anni, When We Where Kings (Quando eravamo re), forse il più bel documentario narrativo intorno a un evento di sport.
Bisogna quindi ammettere che Claudio Colombo ha avuto un gran bel coraggio nel cimentarsi con una storia ormai entrata da mezzo secolo a pieno titolo nel mito dello sport del Novecento. Lo ha fatto con la discrezione antica di chi conosce il mestiere del narratore, di sport e del mondo in cui lo sport ha messo – o continua a mettere – le radici. E con lo sguardo puntale e competente di chi quel mondo lo ha conosciuto. Ad assistere Colombo a bordo ring, due assistenti preziosi: la sapienza di un carpentiere di parole e di idee che lo ha aiutato a reggere l’impianto della narrazione, alternando la descrizione degli accadimenti con digressioni – flash back, anteprime – sul contesto sportivo, e sociale, e politico, e culturale in cui si inquadrava quell’evento. Davvero intelligente è stato il lavoro di montaggio di questi contenuti, che aprono infinite piste sulle vite dei due protagonisti e su quelle dei comprimari di quell’appuntamento: dai loro allenatori agli altri avversari incontrati in precedenza, agli stessi King e Mobutu e ai molti altri personaggi che si muovevano dietro le quinte della spettacolare messa in scena. E poi, altro decisivo sparring partner nella felice riuscita dell’operazione-racconto, la nitida, essenziale eppure ricca partitura linguistica con cui Colombo mette in pagina i fatti: la puntuale restituzione dei gesti, dei colpi sul quadrato del ring, definita con asciutta competenza tecnica e senza alcuna compiacenza retorica (ancora un sinistro troppo lungo, poi un gancio destro a vuoto, infine un montante illogico che scuote solo l’aria. Il bersaglio è tornato lontano); ma anche i moti dell’animo (non dev’essere piacevole, ora, dopo questo sforzo allucinante sorretto dalla volontà e fortificato dalla collera, dopo una valanga di pugni che avrebbe disboscato una foresta, incrociare gli occhi di Ali che lo guardano da uno spiraglio tra i guantoni: occhi di scherno, lampi di fuoco, frecce avvelenate che anticipano le parole che non avrebbe mai voluto sentire: “Sembri cattivo, George, ma proprio non riesci a farmi male!”). Claudio Colombo vince ai punti il suo personalissimo Fight e si candida a diventare modello di una letteratura di sport senza effetti speciali ma che punta dritto al cuore delle storie.