Finalmente una monografia racconta l’epopea del grande ingegnere-architetto (1891-1979), una specie di influencer del cemento armato
Tra tutti i feticismi odierni anche per architetti diciamolo pure di terza e di quarta, il pòro Pier Luigi Nervi non se lo fila mai nessuno. Eppure quando pensiamo all’Italia del Novecento, se immaginiamo una città italiana spesso incocciamo in qualche colossale mammozzone aereo di cemento armato che pare uscito da una stampante 3D dotata di una certa ispirazione.
E’ quasi certamente opera di Nervi (1891-1979) che fu ingegnere (e poi architetto) ma soprattutto una specie di influencer del cemento armato, che ha attraversato il Novecento italiano disseminando non solo in Italia ma nell’orbe terracqueo come direbbe qualcuno le sue enormi strutture candide: dalla più celebre di tutte almeno come brand, l’Aula Nervi in Vaticano, al Palazzetto dello Sport o PalaTiziano che piaceva tanto a Zaha Hadid, al Kursaal di Ostia, al viadotto di Corso Francia, ma poi, fuori Roma, lo stadio di Firenze, il palazzo del Lavoro di Torino, gli Autogrill a ponte simbolo del boom autostradale e le terme di Fiuggi un po’ casa di cattivo di James Bond. E il Pirellone di Milano, con Gio Ponti al design e lui alle strutture. Anche, un non realizzato Ponte sullo stretto di Messina monocampata. E poi ancora fuori Italia l’ambasciata italiana nella Brasilia del sogno architettonico-decolonialista tropicale. E cattedrali a San Francisco, e ponti in Africa.
Nervi ha attraversato le epoche, è stato fascista, poi antifascista democristiano, tutto. Forse per questo a un certo punto diventa un grande rimosso novecentesco: a un certo punto non piace più, viene “cancellato”. Forse anche perché l’Italia è un paese che non ama i cambiamenti e in generale il successo e chi si dà da fare, e in architettura dunque gli architetti che costruiscono. Nervi, il più mainstream degli architetti italiani del Novecento, è appunto cancellato: basta pensare che non esistono monografie dedicate al suo lavoro nell’intero. Adesso a colmare il gap ci pensa un libro appena uscito da Hoepli, “Pier Luigi Nervi. L’arte del costruire”, dello storico dell’architettura Gabriele Neri. E’ anche il modo per restituire l’onore a questa bizzarra figura di progettista-entrepreneur.
Nel paese che celebra “l’architettura disegnata” e i più chic e amati sono gli archistar che han fatto meno, il “metodo Nervi” a un certo punto viene accusato di consumo di suolo, si direbbe oggi: costruiva troppo! E non solo; aveva messo su un’impresa, insieme al cugino, Bartoli, e la Nervi & Bartoli si presentava ai committenti con soluzioni “chiavi in mano”, sbaragliando gli altri nei bandi & concorsi. Il metodo o sistema Nervi poi era anche industriale, partendo da un paese arretrato (anche) nei sistemi produttivi lui punta sull’assemblaggio il più possibile di pezzi prefabbricati che poi monta come un Lego. Così mette su cupole leggere come piume, stadi sospesi che sembrano sfidare la gravità, sempre con effetto “come farà a stare in piedi”; e impianti sportivi che continuano a essere utilizzati anche per concertoni pop. Quando progettò il Palazzo del Lavoro a Torino, fece scalpore con la sua “ingabbiatura” di cemento che abbracciava spazi ampi e aperti senza mai dare l’impressione di pesantezza, In un’epoca in cui l’architettura era spesso dominata da linee rette e monotonia.
Nervi seppe piegare ogni curva e ogni struttura alle sue esigenze estetiche come un Capucci del laterizio. Per lui, il cemento non era solo un materiale; era quasi una musa ispiratrice. Più che brutalista, un nudista del cemento armato: con lo Stadio di Firenze ecco un monumento alla “verità strutturale” di quel materiale lasciato nudo, grezzo, come a dire “ecco il futuro.” Come i cuochi di Masterchef che sanno che con gli ingredienti buoni non servono tante salse, per Nervi l’importante era mostrare il materiale senza fronzoli, poiché credeva che “la bellezza risiedesse nella struttura stessa”. Così, fece del cemento armato la sua firma, tanto da trasformare ogni progetto in una sorta di manifesto, come le famose aviorimesse militari di Orvieto o le rimesse per i motoscafi di Balbo a Orbetello. Anche, grande pr di sé stesso. E dunque fama planetaria, francese, americana e africana, amplificata dalle Olimpiadi del 1960 di Roma. Riviste come Time e Life si interessano a questo strano italiano che dice di selezionare molto le commesse, mentre in realtà lavora furiosamente (anche di notte, è lombardo, di Sondrio) coi tre figli forse succubi nella palazzina Nervi-Nebbiosi a Lungotevere Arnaldo da Brescia, 9.
Avversato da molti, da Bruno Zevi che pur ammirando le sue forme organiche disapprovava molto la collaborazione con Piacentini nel PalaSport dell’Eur, e poi da Aymonino e Benevolo, per il suo far parte del “sistema”, e da Tafuri per essere architetto borghese, morirà alla soglia degli anni Ottanta, troppo presto per veder una generazione di nipotini rendergli omaggio, troppo tardi per veder finire tutta la sbornia ideologica, mentre le sue cupolone alla faccia dell’architettura “disegnata” sono ancora tutte in piedi, probabilmente indistruttibili anche con l’esplosivo.