I veti di Conte a Renzi senza voti, il limite del Pd di Schlein che supera il 28 per cento ma non riesce a federare la coalizione. Il campo largo non esiste e l’Umbria ora fa paura
Fuori.. Il più facile dei rigori a porta vuota – manette, girotondi, scandalo indignato, elezioni anticipate e governatore uscente che addirittura patteggia mentre si distribuiscono i santini elettorali – finisce in tribuna. Per un soffio, ma non va in gol. Andrea Orlando, che dalle primarie del Pd del 2017 non si metteva in gioco in prima persona, rimedia nella sua Liguria una sconfitta di misura. Che ora potrebbe non essere orfana. Fra tre settimane tocca all’Umbria, altro fortino del centrodestra che dopo ieri sera sembra meno espugnabile. Matteo Salvini ha già piantato la tenda a Perugia. “Se perdo sarà per colpa mia”, aveva confessato l’ex pluriministro dem al teatro Politeama di Genova, durante la chiusura della campagna elettorale. Appuntamento cercato, ma complicato nella costruzione tanto da diventare una notizia, la foto dell’album di famiglia. Con tutti i leader sul palco per sostenere “Andrea”, salvo poi rientrare nei camerini e continuare ad azzuffarsi, come d’altronde è stata tutta questa campagna per il “campo largo”. Formula politichese, ma per nulla fattuale. Al contrario del centrodestra, tetragono come sempre nei momenti che contano. Quelli del voto.
Nella notte di Genova restano appesi i “nonostante”. Il sindaco Marco Bucci può dire di avere centrato il mezzo miracolo politico e personale, nonostante la caduta rovinosa dell’ormai ex governatore Giovanni Toti, agli arresti domiciliari per mesi insieme a tutto il centrodestra. Fare di più e meglio, in una regione in cui Fratelli d’Italia non è mai stato egemone, come dimostra il 14,7 per cento, era complicato se non impossibile visto soprattutto l’aria che tirava. Il neo presidente è stato la scelta migliore, l’unica potabile in uno scontro incentrato sulla contrapposizione “sì grandi opere”, “no grandi opere”. Il tutto nonostante lo stato di salute di Bucci, malato oncologico per sua ammissione con un’intervista il giorno in cui ha accettato di candidarsi. Un fattore rimasto sullo sfondo e che non è risultato determinante per i liguri, anzi.
Fa abbastanza impressione andare nell’altro campo, quella della coalizione che sosteneva Orlando. Che ariosticamente dovrebbe essere furioso per come i suoi alleati se le sono date in continuazione per settimane. I lapilli arrivano da ciò che resta del M5s, quarto classificato nella partita interna della coalizione. Sotto il 5 per cento, con il Pd che ha preso il sestuplo dei voti, superato da Avs e perfino dalla lista civica del presidente. Una disfatta? Sì. Totale.
E soprattutto con Giuseppe Conte impegnato da settimane in una doppia guerra sull’asse Roma-Genova. Quella esterna con Matteo Renzi a cui è riuscito a sbarrare la strada spingendolo fuori dall’alleanza – e visto com’è finita sembra già di vedere il sorriso beffardo del leader di Italia viva – e quella interna con Beppe Grillo, forse fra i genovesi più famosi e riconoscibili d’Italia. Non a caso alla fine si scoprirà che il fondatore (in mora) del M5s ieri non è andato a votare (come d’altronde accadde anche alle europee). Anzi, sempre Conte sabato scorso con un tempismo luciferino ha fatto sapere – tramite le anticipazioni del libro di Bruno Vespa – che non avrebbe rinnovato il contratto di collaborazione da 300 mila euro a Grillo, provocandone la reazione pubblica il giorno prima del voto: “In Liguria i candidati sono stati scelti dall’alto”. Ora, fermatevi un attimo e mettetevi nei panni del candidato del centrosinistra che nel frattempo girava mercati e province alla ricerca di voti, provando a convincere gli elettori di essere la sintesi di una coalizione unita. Una catena di errori che ha travolto Elly Schlein. La segretaria del Pd, in modalità opossum, alla fine ha dovuto assecondare la furia contiana contro Renzi in Liguria, dopo fiumi di inchiostro sugli scontri interni, servizi tv su una una coalizione che in Liguria, metafora di un’opposizione senza amalgama, si stava andando a schiantare a tutta birra contro un muro. Al Nazareno ieri sera abbastanza consapevoli della didascalia di queste regionali, cadute per caso e buttate al macero, mettevano le mani avanti facendo filtrare irritazione verso Conte. Per le sue uscite intempestive nel creare un caso interno con Grillo a 24 ore dal voto, per un atteggiamento autolesionista (voluto?) che alla fine ha sabotato tutto e tutti. “Noi ci siamo fatti trovare pronti, siamo il primo partito con distacco rispetto agli altri, ma il M5s dov’è?”, si chiedevano dalle parti della segretaria entrata di primo pomeriggio con un volto di sfinge nel palazzone degli Scolopi, salvo riemergere con il buio pesto. Alla fine si dirà che hanno vinto i veti di un Conte forte, ma senza voti e che se ci fosse stato Renzi, forse adesso il film sarebbe stato un altro. La Liguria doveva essere il debutto di un pacchetto da 3-0 alla faccia del governo Meloni, segno di un vento di cambiamento nel paese. Così non è stato. E anzi nel Pd iniziano già a tremare pensando all’Umbria (l’altra sfida sarà in Emilia-Romagna) che non sembra più una passeggiata di salute. Dinamiche locali che alle fine rischiano di ripercuotersi sulla leadership di Schlein, in grado di prendere voti con il suo Pd quanto incapace di costruire una regia da federatrice di un campo che non esiste. E che registra già una vittima sul lavoro: Andrea Orlando.