A Tblisi scende in piazza l’opposizione e chiede un nuovo voto. Un atto simbolico per dire che la protesta deve andare avanti. A poca distanza dal Parlamento intanto è arrivato il premier ungherese per stringere la mano ai leader di Sogno Georgiano
Tbilisi, dalla nostra inviata. Non si era mai vista una piazza con il compito di dare vigore a dei leader. Non si era mai vista, fino a stasera, quando i georgiani si sono riuniti a Tbilisi per dimostrare che esistono, che l’opposizione per quanto smarrita, ammutolita, poco carismatica, non è la sola a pensare che durante il voto del 26 ottobre molte cose non sono andate come dovevano, che la vittoria di Sogno georgiano, il partito di governo, non è soltanto il frutto della scelta dei suoi elettori, ma è anche il prodotto di un imbroglio. Saranno i numeri a dimostrare chi ha torto e chi ha ragione, l’opposizione li sta raccogliendo, molti analisti indipendenti, non soltanto georgiani, li stanno aiutando. L’appuntamento di oggi davanti al Parlamento su viale Rustaveli era una prova. Chi è arrivato lo ha fatto quasi in punta di piedi, guardingo, cercando con lo sguardo i segni identificativi della protesta: bandiere, cartelli, trombette, fischietti. Poi la manifestazione è iniziata con un picco potente: l’arrivo della presidente, Salomé Zourabichvili, accolta dal grido “Salomé, Salomé, Salomé”.
Non era mai stata una politica amata, i suoi detrattori dicono che parla georgiano da straniera, ma al fianco di un’opposizione impietrita i suoi discorsi suonano battaglieri, programmatici, tonanti e sono il prodotto di una storia inedita: una presidente che accusa il governo di aver rubato il voto dei cittadini ed è pronta a dimostrarlo. Dopo mesi di proteste, la manifestazione di oggi è stata la prima organizzata dalla politica, le precedenti avevano spesso messo in chiaro che non volevano avere nulla a che fare con i leader dell’opposizione, i manifestanti si sono rifiutati, corteo dopo corteo, di dare legittimità a questo o a quel politico. Per la prima volta invece i georgiani hanno risposto a una chiamata che veniva dalla politica: un segno di fiducia, cauto, necessario. Dopo l’uscita di scena della presidente, i leader si sono alternati in ordine, tra gli applausi, le grida, dando vita a un comizio lungo, troppo lungo per essere l’inizio di una protesta con volontà di rivoluzione. Le facce che ormai i georgiani hanno imparato a conoscere senza slancio sembrano ancora attonite, le loro voci fanno prove di leadership, ma suonano impreparate, afone di fronte alla folla che grida: “Sakartvelo, Sakartvelo, Sakartvelo”, che vuol dire Georgia. Non infiammano, ma con un atto di fiducia e serietà i georgiani rimangono ad ascoltarli, provano ad animarli, sono consapevoli che questo è un primo appuntamento. La presenza a questa manifestazione è un atto simbolico per dire che la protesta deve andare avanti, non si può mollare e per segnalare che per essere credibili c’è bisogno di struttura, altrimenti si finisce per essere divorati, ancora una volta, da Sogno georgiano, che sta facendo finta che l’opposizione non esista. Una delle prime dichiarazioni del premier Irakli Kobakhidze è stata la promessa di rivolgere tutte le attenzioni del governo verso l’integrazione europea. Il partito di maggioranza non ha intenzione di scansarsi, non si sente minacciato dalla comunità internazionale, che di fatto non ha contestato il risultato del voto, non si sente intimidito dai partiti degli oppositori che si dicono pronti a non entrare in Parlamento. Sogno georgiano tira dritto e lo farà fino a quando davanti non troverà avanti un muro abbastanza consistente da resistere a ogni urto.
La piazza di Tbilisi non balla, si osserva e osserva. Ci sono striscioni che chiedono di ripetere il voto, altri che propongono di liberare Mikheil Saakashvili e incarcerare Ivanishvili, c’è una delegazione di Europa Radicale che stringe forte uno striscione con la scritta: “Georgia is not Russia”. Non è più una piazza di soli ragazzi avvolti nella bandiere europee, in viale Rustaveli l’età media si è alzata: ci sono i genitori e ci sono i nonni. “Io sono dell’Abcasia, e già questo è sufficiente per sentirmi arrabbiato – dice un signore che abbraccia sua moglie e che accetta di parlare russo soltanto perché “ho molta voglia di raccontarti e l’inglese non faccio in tempo a impararlo” – poi mi sarei vergognato di me stesso se oggi non fossi venuto qui. Ho dei nipoti, devo assicurargli un futuro perfetto. Non buono, non vivibile, perfetto. Ho votato Sogno georgiano in passato, questa volta no e sono furioso per la mancanza di rispetto nei confronti dei georgiani”.
I cittadini chiedono di ripetere il voto e pretendono l’attenzione internazionale. “Quando qui si spegne la luce, la nostra speranza finisce davvero”, dice una signora con l’ombrello dai colori della bandiera georgiana, ha portato con sé il marito, che mangia semi di zucca senza parlare, si guarda attorno: “Teme che si facciano violenti – spiega la signora indicando la polizia – ma non succederà oggi”. La protesta dura poco, forse fiaccata dal comizio troppo lungo, forse perché è stato un primo appuntamento, un assaggio, un primo passo. A poca distanza dal Parlamento è arrivato il premier ungherese Viktor Orbán, corso a Tbilisi per stringere la mano ai leader di Sogno georgiano. Alcuni manifestanti lasciano la manifestazione per andare a fischiare sotto la sua stanza: “I loro amici arrivano subito, i nostri dove sono?”, domanda Levan, infervorato al punto da inciampare sulla sua bandiera messa come un mantello: supereroe giovane e goffo di una battaglia appena iniziata.