I soldi e le bugie che deformano la campagna elettorale, perché l’occidente pigro e viziato si fa scivolare la libertà dalle mani. Il tempo che ci vorrà per la guarigione e chi va sciaguratamente di fretta. Colloquio
L’America è “in difficoltà”, una difficoltà “profonda, culturale e politica”, dice con il suo modo lento e chiaro Leon Wieseltier, intellettuale americano che spero sia immortale: “L’istinto delle società liberali si è indebolito così tanto che rischia di sparire in molte parti del mondo: se Donald Trump perdesse le elezioni, si eliminerebbe il trenta, forse il quaranta per cento del problema, ma non di più. Abbiamo di fronte difficoltà considerevoli”. Usa spesso questa parola, struggle, che significa difficoltà, ma anche fatica e lotta, e alla fine di una lunga, illuminante e poco rassicurante conversazione mi dirà che c’è una differenza sostanziale tra struggle e problem. Ci ha dedicato uno dei suoi saggi su Liberties, la rivista-libro che ha fondato nel 2020, dopo essere stato accusato di atteggiamenti inappropriati da alcune donne che lavoravano con lui ed essere stato costretto ad abbandonare il progetto editoriale, un magazine, su cui stava lavorando, che si chiamava Ideas. Liberties esce quattro volte l’anno, è una raccolta di saggi lunghi – Wieseltier sceglie gli autori con cura e le idee con tutta la libertà intellettuale di cui è capace, poi non pone limiti di lunghezza, di conformismo, di linea editoriale: a quel punto si fida – ed è la sua risposta alla frenesia dell’informazione, che è assenza di studio e di riflessione: bisogna rallentarsi e allenare il pensiero, la velocità superficiale ha ammazzato il discorso pubblico.
“Problems and Struggles” è stato pubblicato sul terzo volume di Liberties, nell’inverno del 2023, inizia con lo scoramento di Wieseltier di fronte a una società che ha abolito la persuasione – “Chi cambia più idea? Qual è la differenza tra una società aperta intellettualmente pietrificata e una società chiusa?” – e si chiude così: “Gli apocalittici hanno scelto di trattare gli struggles come dei problemi, vogliono una rapida soluzione escatologica, la comprensione è distorta dalla disperazione. Lo sconforto priva l’apocalittico di volontà e di energia, o meglio, lascia alla propria volontà e alla propria energia soltanto quel che è sufficiente per avviarsi sulla via del radicalismo, che è la meno esigente e che (come sappiamo dal passato radicale) farà esplodere ogni cosa o si esaurirà. In altre parole, uno struggle è il sentiero antiapocalittico per eccellenza. Nella sua determinazione a superare la disperazione, nella sua promessa che la sua risoluzione sarà invulnerabile alla fortuna, lo spirito dello struggle ci arma non solo contro l’ingiustizia ma anche contro le nostre fragilità. Possiamo riflettere, restare calmi e tenerci stretti nella tempesta, perché siamo più saggi della tempesta”. Oggi Wieseltier dice che “l’America deve prepararsi a un lungo periodo di struggles. A volte le persone si disperano grandemente perché confondono uno struggle con un problema: un problema è una cosa che riconosci, che sai che ha una soluzione, provi a risolverlo, se non ci riesci ci riprovi in un altro modo, e poi vai avanti. Ma lo struggle non è così lineare, richiede tempo, e intanto diventi scontento, fai un passo avanti e due indietro. Ricordo che nel 2015, quando la Corte Suprema introdusse il matrimonio omosessuale, andai con mio figlio, che allora era adolescente, alla Casa Bianca, che era illuminata dei colori dell’arcobaleno.
“Tutti festeggiavano – continua Wieseltier – era stupendo, abbiamo parlato e ballato con tanti sconosciuti – stupendo. Ma tornando a casa, mi rivolsi a mio figlio, c’era una cosa che dovevo proprio dirgli: hai appena visto perché vivi in un grande paese, ma non pensare nemmeno per un secondo che questa cosa non finirà per provocare una reazione terribile. Il progresso non è mai lineare e non è mai, mai inevitabile: è uno struggle costante, continuo”. Questa è la ragione per cui una sconfitta di Trump alle elezioni del 5 novembre risolverà di certo qualche problema, ma non cancellerà la fatica, la lotta che ha davanti l’America, una difficoltà profonda, politica e culturale. Cominciamo dai problemi, quindi, e dalla campagna elettorale in corso, che si può sintetizzare con due elementi che ritroviamo in abbondanza: i soldi – tantissimi soldi, secondo le stime questa potrebbe essere la campagna elettorale più costosa di sempre, i miliardari sono tornati con il loro enorme peso, e il loro cinismo – e le bugie, di nuovo tantissime bugie, di ogni forma, soprattutto, di una forma nuova. Chiedo a Wieseltier di Elon Musk: “Elon Musk è forse l’uomo più spregevole della terra, è il primo supercattivo della vita reale. E’ un uomo senza inibizioni e con una quantità esorbitante di potere, rappresenta il vero pericolo di una concentrazione estrema di denaro in un unico individuo, e dico ‘concentrazione estrema’ perché non ho nulla contro le persone ricche, ma Elon Musk pensa, e lo dice lui stesso, che le regole politiche, le regole etiche, le lezioni della storia per lui non valgono. Il danno che farà alla società americana eccede di molto i benefici dei suoi dannati razzi nello spazio. Musk è davvero un villain, un supercattivo, che non ha precedenti: è un nuovo fenomeno nella storia del male”. Wieseltier aggiunge che il proprietario di Tesla, SpaceX e X non è affatto idiota, come invece è Trump, e visto che abbiamo iniziato questa carrellata di personaggi che hanno trasformato il trumpismo dalla prima candidatura a questa, che è la terza, gli chiedo del candidato alla vicepresidenza del Partito repubblicano, J. D. Vance: “J. D. Vance è il volto più umano dell’autoritarismo americano, ma è intellettualmente mediocre ed è un opportunista supremo, come si vede chiaramente se si studia la sua storia. E’ possibile avere opinioni sbagliate e mantenere la propria integrità, ma sfortunatamente Vance si sbaglia e non ha integrità”. Cito anche Peter Thiel, demiurgo di Vance e di un’idea di post trumpismo che avrebbe dovuto, secondo i primi piani del 2021, costruirsi contando sull’assenza dello stesso Trump che allora era sconfitto e fresco di eversione, e Wieseltier dice che questi personaggi “stanno definendo un nuovo futuro, in cui loro sono i dominatori”.
Il passo da qui alle bugie è invero molto breve: se nel 2016 parlavamo di post verità, ora si dice che siamo entrati nella post realtà. Wieseltier non ha alcun tono indignato, conserva sempre intatta un’indulgenza priva di moralismo nei confronti delle debolezze, dice che “dove c’è la politica, ci sono le bugie”, è una storia antica, “ma è cambiata la natura delle bugie, Trump ha aperto un nuovo cantiere creativo di bugie, le sue bugie sono così disturbate che non sono nemmeno sbagliate, sono pre-sbagliate: il nostro ex presidente non ha alcun interesse nella verità, non ha alcuno scrupolo riguardo ai fatti, tutto quel che gli passa per la testa esce dalla sua bocca” e la pessima notizia è che si tratta di una testa che “per il 99 per cento è psicopatologica: non crede in nulla, non sa nulla, è ignorante in modo scioccante. Per questo la qualità delle bugie è peggiorata e peggiora: le persone non credono soltanto a delle bugie, ma a delle allucinazioni”. Wieseltier ripete più volte: allucinazioni, e aggiunge un’ulteriore distorsione: “Le persone ora iniziano a credere che più la bugia è folle, più coraggiosa e veritiera deve per forza essere. Quindi se Trump ha il coraggio di dire che due più due fa cinque, vuol dire che tutti noi sappiamo che due più due fa cinque, ma non abbiamo il coraggio di dirlo. Ogni cosa è svilita e falsata, ed è buono che ci sia un fact checking di Trump, ma penso che a chi lo fa stia in qualche modo sfuggendo il senso di Trump: a lui non interessa avere ragione o torto, non gli importa per niente, ed è per questo che è tanto pericoloso: la nostra politica è in una crisi epistemologica”. E’ inevitabile che il problema (l’ascesa e la possibile vittoria di Trump) s’intrecci con lo struggle, la campagna elettorale è il momento in cui si fanno i conti con le difficoltà profonde dell’America, la sua faccia triste, la sua democrazia stropicciata, la sua anima allucinata. “Questo nuovo tipo di menzogna – dice Wieseltier – avviene precisamente nel tempo in cui abbiamo sviluppato una tecnologia che ha un’efficienza senza precedenti nel disseminare le cose. Oggi le bugie, le bugie spettacolari, le allucinazioni sono spacciate per discorso pubblico grazie anche a questa tecnologia così efficace, internet e i social media. E la parte della nostra società che si affida più di tutti a questa tecnologia è l’informazione, sono i media: gli storici dovranno chiedersi perché i media si siano lasciati affascinare da Donald Trump ormai da dieci anni. Vediamo questa fascinazione ogni giorno, basta contare quante foto dell’ex presidente vengono pubblicate, come se nessuno sapesse che faccia abbia. Posso ammettere che forse esiste un fascino perverso in Trump, ma oggi quel che conta di più è il danno che lui può rappresentare; fa bene agli affari dei media continuare a mostrare e a parlare di Trump, ma questo porta anche a una dipendenza – è davvero una relazione poco sana”. Dopo aver passato otto anni a parlare, scrivere, discutere di Trump, “sembrava, all’inizio di questa campagna elettorale, che l’ex presidente fosse diventato troppo familiare, gli elettori non erano più così entusiasti come la prima volta, i media dicevano che non c’era più nemmeno lo slancio della seconda volta. Poi qualcosa è cambiato, certo il tentativo di assassinarlo a luglio ha contribuito, ma all’improvviso la fascinazione è tornata, mi ha fatto venire in mente Dickens, che scriveva dell’attrazione per la repulsione. Forse è questo che è successo e per questo i media si sono messi a fissare Trump, e Trump domina essenzialmente la copertura mediatica”.
Il Washington Post ha deciso di non pubblicare un endorsement in questa campagna elettorale, dicendo di voler tornare alle origini, quando questa pratica non esisteva, e recuperare credibilità e imparzialità: in realtà un endorsement era già stato scritto (a favore di Kamala Harris), ma sembra che sia intervenuto il proprietario del quotidiano, Jeff Bezos, a bloccarlo. La redazione è in rivolta, alcuni autori importanti, come Robert Kagan, si sono dimessi, molti lettori hanno disdetto l’abbonamento, Wieseltier dice che “è una cosa ignobile. Se si vuole una discussione seria sull’opportunità di pubblicare un endorsement, va benissimo, ma in questo caso una persona molto ricca e con molti interessi, che come tanti pensa che Trump abbia buone possibilità di vincere, vuole posizionarsi in modo favorevole al ritorno di Trump. Ma quanti dannati soldi devi avere? Jeff Bezos dovrebbe essere una delle persone più invulnerabili della terra! E’ sconfortante, è una resa, come una resa a un boss mafioso”. Il potere dell’informazione e le sue deformazioni ricordano a Wieseltier la ribellione contro il presidente Joe Biden, che ha portato infine alla sua uscita dalla corsa presidenziale e alla nomina di Kamala Harris come candidata del Partito democratico: “Da un giorno con l’altro i media si sono rivoltati contro Biden, repentini e brutali. Io pensavo tra me e me che forse non era il caso che Biden si ricandidasse, ma non c’era bisogna di buttarlo giù dalla carrozza in quel modo”.
Per quanto l’allucinazione americana venga amplificata dai media, Wisieltier pensa che non sia questo il problema primario dell’America, dice di non fidarsi di chi lo definisce come tale, perché la difficoltà dell’America è politica, è culturale, è quella di una società “intellettualmente pietrificata”. Stiamo arrivando agli struggles americani, ma prima gli chiedo di Kamala Harris: “Dopo che è stata nominata – dice – mi sono fatto una promessa: non la studierò troppo da vicino prima di votarla, non volevo ferire il mio entusiasmo. Harris è intelligente e svelta, ha una mente da procuratrice, affilata e rapida, ed è riuscita a fare quel che tutti credevano impossibile, cioè portare allegria e gioia. La maggior parte delle persone non ama essere depressa per troppo tempo ed è arrivata lei, con il suo istinto ottimista e gioioso, giovane e brillante e capace di raccogliere molti soldi.
“L’unico problema è che non conosco nessuno che davvero sappia in che cosa crede Kamala. Ha molte qualità, ma in termini di filosofia politica non saprei dire in cosa crede: penso che non creda in nulla di cattivo, ma c’è qualcosa di un pochino vago e di un pochino mediocre in lei”. Wieseltier non si riferisce ai dettagli delle politiche proposte o non proposte da Harris e in generale dai candidati, parla del “nucleo filosofico” di un leader politico, delle “convinzioni per cui sei disposto a batterti”, e già nel 2020, alle primarie, “Kamala cadde velocemente perché non si capiva che idee volesse rappresentare. Ma comunque, anche se non ha niente da dire, sarà un onore votarla, non c’è mai stata un’elezione più semplice per me, se Trump corresse contro un cavallo, voterei per il cavallo”.
A questo punto faccio l’errore di citare Barack Obama, so perfettamente che Wieseltier non ha grande stima dell’ex presidente e anzi lo considera l’origine del ritiro americano dal mondo, e infatti: “Oh, dimenticati di Obama – dice – Obama è soltanto per Obama, non ha nemmeno l’influenza di un tempo, vive ormai nella terra delle celebrità e nello show business. Non è un fattore importante. Certo, può diventare utile perché c’è un fenomeno pericoloso in corso, cioè i maschi afroamericani e ispanici che votano per Trump. Solo che quando ne ha parlato, Obama è stato paternalistico, lo è sempre, lui è superiore a tutti quanti, è l’uomo più cool del pianeta, il suo modello di riferimento è Jay-Z”. Penso al cavallo candidato contro Trump e ritorno su Harris, sul fatto che sarà mediocre ma intanto ha fatto una cosa inaspettata, non ha mai detto: votatemi perché sono donna, perché sono nera, perché sono asiatica. E’ una quieta rivolta contro il dominio delle politiche identitarie, e infatti Wieseltier la trova “ammirevole” per questo, ma ricorda anche che “il sesso si avvia a essere la categoria sociologica più importante di questo ciclo elettorale”, gli uomini votano l’uomo, le donne votano la donna. In parte è una cosa normale, perché il dibattito sull’aborto, che è molto rilevante, “riguarda soltanto le donne”, non si è mai allargato per quanto si sia provato a farlo, ma c’è un altro fattore: “Questa è una stagione molto confusa e bizzarra per il maschio americano. Il voto per Trump è sempre stato un panic vote, un voto dettato dal panico, e in particolare dal panico bianco, che è una cosa diversa dal razzismo, può essere razzista ma non lo è necessariamente. Ma ora c’è un panico del maschio, per molte ragioni che hanno a che fare anche con il consolidarsi del potere femminile, ma naturalmente Trump sta esagerando forme stupide di mascolinità, come l’ostentazione di una forza superficiale che a volte sconfina nella crudeltà: l’idea trumpiana di mascolinità è invero orrenda”.
Parliamo delle responsabilità del Partito repubblicano, che “ha fatto un patto faustiano di una portata storica con Trump” – in cambio “della riforma fiscale e delle nomine alla Corte Suprema si è venduto al diavolo” – e parliamo anche del Partito democratico che ha sempre avuto il vizio “di voler partecipare al gioco, ma di voler anche fare l’arbitro ed è una cosa che non può funzionare”, e poi riprendiamo da dove eravamo partiti: quel che si è rotto in America. “Se credi in un ordine liberale, nella libertà di espressione, nel rispetto reciproco, nell’impatto positivo degli immigrati, nella liberazione delle società dalla tirannia delle identità con tutto quel che significa sia a destra sia a sinistra – ricordiamoci che la politica del movimento Maga, Make America Great Again, una politica etnonazionalista, è come le politiche identitarie della sinistra radicale – se credi in tutto questo, per te è un momento tremendo. L’attrazione filosofica e sociale dei princìpi liberali non è più una cosa ovvia per molte persone”. Le ragioni sono tante, c’entrano “con il sentirsi negletti, a volte persino oppressi dalle società liberali, con la diseguaglianza economica, che è oscena in un modo spettacolare in questi nostri tempi, con il panico generato dai cambiamenti sociologici e demografici, ma nessuna di queste ragioni, non la frustrazione economica, non il panico etnico, possono giustificare la distruzione dell’ordine liberale perché un ordine antiliberale porterebbe soltanto cose peggiori”. Però lo smantellamento è in atto, e sì che mai come ora, soprattutto per noi europei che abbiamo una guerra nel cuore del nostro continente, è evidente quanto libertà, benessere, convivenza siano preziosi. “La teoria classica degli stati europei non è multietnica: c’è una nazione, incarnata in uno stato, in cui tutti i confini, religiosi, etnici, culturali e politici devono coincidere. Ma naturalmente non è così, non lo è mai stato, e in Europa c’è quello che viene chiamato ‘il problema delle minoranze’, ma le minoranze sono un problema soltanto se continui a mantenere l’antica distinzione tra nativi e stranieri. Se una minoranza diventa grande in modo minaccioso in uno di questi stati, la maggioranza si spaventa e si creano le tensioni cui assistiamo adesso. Gli Stati Uniti sono sempre stati una nazione multietnica, si sono sempre definiti senza troppi tormenti una democrazia multietnica: il nostro problema non sono tanto gli immigrati, quanto il fatto che stiamo diventando quel che viene chiamata minority majority country, cioè i bianchi in America stanno diventando la minoranza, e quindi ci ritroviamo con un panico che è tipicamente europeo a causa della perdita di controllo e di prestigio. Ma tutto questo è dato dall’ottuso rifiuto di ridefinire le nostre nazioni come multietniche: se non ci definiamo democrazie multietniche, l’unica alternativa è il fascismo. Un fascismo leggero, o pesante, o fragile, o forte, ma comunque una forma di fascismo. In molti paesi, le persone sono ora più spudorate riguardo a questa alternativa, dicono: la mia nazione appartiene a me e non a te. Al fondo c’è la questione: come definisci me e te? E perché tu sei così riluttante a condividere il tuo paese con persone che non sono come te?”. Si chiama esclusività, “e il mito dell’esclusività, etnica o religiosa, è molto antica: il problema dell’Europa è sempre stato quello della differenza, è dal medio evo che è così”.
Per Wieseltier la creazione dell’ordine liberale è “un miracolo” (ha usato un’altra volta questo termine: per definire la vittoria di Joe Biden nel 2020), “davvero è un miracolo, con tutti i suoi difetti, nessuno ha mai pensato che l’ordine liberale fosse perfetto, ma la sua creazione è stata un miracolo, e una delle lezioni che abbiamo imparato è che l’ordine liberale non è lo stato di default della natura umana. Per creare una democrazia liberale è necessario trionfare su istinti e impulsi orribili, e non è facile. Quindi ora, la conseguenza della diseguaglianza economica o della paura dell’altro è che la giungla sta ricrescendo, the jungle is growing back”. Ricresce ovunque, nei movimenti politici, nel dibattito pubblico, nella normalizzazione di una retorica illiberale, in America come in Europa. “La triste ironia è che, nel momento in cui molte società occidentali stanno perdendo fiducia nei princìpi liberali, la guerra in Ucraina è combattuta dagli ucraini in nome di questi princìpi liberali: Volodymyr Zelensky oggi è il nostro leader morale. La guerra in Ucraina è combattuta perché gli ucraini sono disposti a morire per princìpi che noi, in un modo pigro e viziato, ci siamo lasciati scivolare dalle mani in tempo di pace. E questa è una cosa indecente, l’occidente si comporta come un gruppo di ragazzini viziati. Per di più, molte persone nei nostri paesi vogliono comportarsi così, sanno benissimo che cosa c’è in gioco in Ucraina, ma non è sufficiente per ricordarsi quanto questo sia uno scontro rilevante. E Vladimir Putin non potrebbe essere più esplicito e spudorato nel suo tentativo di annichilire la natura delle società occidentali: è sfrontatamente aggressivo”. L’occidente continua a ribadire un sostegno imperituro agli ucraini, ma gli aiuti scarseggiano e le linee rosse abbondano, per paura di provocare il presidente russo che invece, con le armi dei suoi alleati e senza alcun limite, vìola qualsiasi regola, sempre più famelico e brutale. Le parole non bastano, ma nemmeno le armi bastano, “è una questione di potere”, dice Wieseltier, “il liberalismo senza l’esercizio del proprio potere non è nulla, è un invito all’autoritarismo. L’occidente non capisce che non potrà godersi l’ordine liberale – e con godersi non intendo un cappuccino in un bar in una bella piazza, ma i suoi benefici e i suoi diritti – senza la volontà di mettere il proprio potere a protezione del proprio modo di vivere, perché è questa nostra way of life a essere sotto attacco. Ogni giorno subiamo un cyberattacco, ogni giorno: non muore nessuno, ma la cultura, le elezioni, la politica sono avvelenati da queste aggressioni”.
Chiedo a Wieseltier se, così ammaccati, potremo guarire da questo avvelenamento e da questi attacchi, risponde che ci vorranno dei decenni, una sconfitta di Trump in America permette una soluzione soltanto parziale. Prende un esempio dalla storia politica americana: “Quando George McGovern perse le elezioni nel 1972 perché aveva sposato un’idea di sinistra troppo radicale per il nostro paese, e Richard Nixon vinse in tutti gli stati tranne uno, alcuni democratici capirono che, rimanendo così radicali, avrebbero continuato a perdere, e crearono il Democratic Leadership Council, che alla fine portò al potere Bill Clinton: ci vollero vent’anni. Vent’anni per spostarsi da un estremo ideologico verso il centro, vent’anni, e tra i repubblicani oggi non c’è nessun Leadership Council, non c’è nessun movimento che ha la forza e la volontà di rigettare questa follia. Ci vorrà molto tempo”. Wieseltier non sa se gli americani davvero comprendono quanto è grave la situazione, dice che “amano essere gratificati subito”, ripassa da quel senso di velocità superficiale che ha invaso l’informazione e la politica pietrificando il dibattito intellettuale, “durante la presidenza di Trump continuavamo a chiederci: cosa deve accadere per farci finalmente tornare in noi stessi e riscoprire la nostra unità? E quell’evento è successo, è stata la pandemia, ma noi cosa abbiamo fatto? L’abbiamo politicizzata! Nemmeno la peste è riuscita a farci tornare uniti. E ora penso che la stessa cosa accadrà con il cambiamento climatico, che è la minaccia più grave che incombe su di noi: finiremo per politicizzarlo”.
Dovevamo parlare di guarigione, siamo più “depressi” di prima. Se Wieseltier deve citare qualcosa di ottimistico dice: “I giovani mi danno un senso di ottimismo, anche quando penso che abbiano idee sbagliate; la tecnologia troverà delle risposte a qualche pericolo che ci minaccia”. Si ferma, si arrende, “no, non riesco a trovare ragioni per essere ottimisti, ed è per questo che l’America deve prepararsi a un periodo di struggles”. Abbiamo parlato poco del resto del mondo, di noi che senza un’America convinta del proprio potere liberale siamo spaesati e perduti, Wieseltier dice che “gli Stati Uniti non sono pronti all’epoca in arrivo, in cui non ci sarà soltanto una guerra fredda, ce ne saranno due: ci aspetta un lungo tempo di grande rivalità tra potenze”. La guerra contro l’Ucraina, nella sua tragedia insopportabile, ha restituito un senso della storia all’America, “ma oggi temo l’eventualità che il mio paese si riveli un alleato inaffidabile”.
Sono tempi “infelici” questi, “quando vieni qui, ci dobbiamo prendere un drink”, mi dice salutandomi, promettente. E’ notte per me, rileggo una frase che ho sottolineato nel suo ultimo saggio su Liberties: “Gli americani votano nell’ignoranza, come se il voto fosse l’espressione di un’emozione e non di un ragionamento informato, come se il diritto di voto fosse l’unica cosa che conta nel voto. Ma assieme al diritto di voto c’è il dovere di votare in modo intelligente. La conoscenza non dovrebbe essere un’amenità in una società che si governa sulla base delle proprie opinioni, né dovrebbe essere vituperata come se fosse un simbolo elitario. Quando Trump dice di ‘amare le persone poco istruite’, infrange la promessa democratica”. Riascolto un’intervista che Wieseltier ha dato l’estate scorsa, in cui racconta il suo cameo nei “Soprano”, la sua carriera da critico letterario a New Republic, l’accusa di molestie, la fondazione di Liberties, l’urgenza di rallentarci, la necessità di riflettere: dice che va a caccia, nella sua testa e in quella degli autori che sceglie, di “una incandescenza intellettuale spietata”. Non riesco più a dormire.