In Georgia la sfida della presidente Zourabichvili, che chiama la sua piazza

Non riconosce il risultato del voto, allinea l’opposizione ammutolita, parla di brogli e interferenze di Mosca: “Non sono venuta qui per veder arrivare la Russia”. L’arrivo di Orbán e le prove che ancora non ci sono

Tbilisi, dalla nostra inviata. Il conteggio è finito, secondo la Commissione elettorale, il partito di governo, Sogno georgiano, ha vinto le elezioni con il 52 per cento dei voti. C’è una discrepanza pesante tra gli exit poll pubblicati dall’opposizione e i risultati diffusi alla fine dello spoglio: almeno dieci punti. Qualcosa non torna, ma Sogno georgiano c’è, esiste, il grande fallimento non c’è stato e anche in caso di brogli, non fa passi indietro, si prende il proscenio della scena politica georgiana, con l’assenso degli osservatori internazionali che hanno definito le elezioni competitive, nonostante l’atmosfera di tensione, di polarizzazione e, in alcuni casi, di intimidazione.

I georgiani aspettano, non scendono in strada, davanti al Parlamento appaiono dei cartelli, qualche gruppo timido di passanti-manifestanti in potenza, ma attendisti: vogliono prima vedere quanti sono i georgiani disposti a piantarsi davanti al Parlamento, a riempire viale Rustaveli, a calpestare la strada che hanno fatto avanti e indietro con le bandiere georgiane sulle spalle, quelle europee tra le mani, quelle ucraine attorno al collo e riservando apparizioni d’onore anche ai colori israeliani. La determinazione di qualche mese fa si è fatta guardinga, gli occhi non sono sul governo, sono sull’opposizione, asserragliata da ore in concili interminabili per decidere il da farsi. Una ragazza davanti al Parlamento ha in mano un cartello: “E’ ora di trasformare la rabbia in azione”. Non basta essere indignati, non basta dire che il voto è stato rubato: i timidi passanti, questi manifestanti in potenza, seppur ancora pochi, chiedono decisioni. “Quali decisioni?”, domanda un ragazzo georgiano nato in Russia e tornato a Tbilisi da cinque anni. Ha accompagnato in piazza i suoi amici, tutti dell’opposizione, lui è l’unico ad aver votato Sogno georgiano. Scherzano, si motteggiano, gli altri gli dicono che le elezioni sono rubate, lui risponde: “Ma noi abbiamo vinto, o lo dimostrate o forse volete sabotare la decisione presa democraticamente dai georgiani?”. Il sostenitore di Sogno georgiano ride, i suoi amici un po’ meno, ma sono tutti in attesa di evidenze, di prove di brogli, di segnali di interferenze da parte di Mosca. Nessuno parla, serve una voce autorevole che dentro all’opposizione nessuno sembra avere, il blocco granito degli oppositori di Sogno georgiano è nell’ombra e ai passanti in piazza non è sfuggita la titubanza – la notte tra sabato e domenica la domanda più diffusa era: davvero non eravate pronti?

Non lo erano. II segnale arriva, è la presidente Salomè Zourabichvili a darlo, ma senza prove: con i partiti dell’opposizione muti e allineati, schierati alle sue spalle, dice di non riconoscere il risultato elettorale. “Non sono arrivata fino a qui per questo – dice sicura, con voce forte – per vedere la Russia entrare in Georgia. Non si può legittimare questo voto”. Zourabichvili è figlia di dissidenti, fuggiti dall’Unione sovietica, è cresciuta in Francia, è alla fine del suo mandato e prende il rischio di confrontare il suo stesso governo: si toglie di dosso i panni dell’istituzione imparziale e veste quelli di capo dell’opposizione. Ad ascoltarla, in sala, tra i giornalisti, c’è il figlio di sua cugina, Emmanuel Carrère, venuto a raccontare la storia di una nazione che vuole diventare europea, ma interpreta questo cammino in due modi molto diversi. L’interferenza russa, l’arrivo di Mosca, il piano del Cremlino per aiutare Sogno georgiano e prendere il paese sono al centro delle parole della presidente, che, da donna poco amata e da leader scansata, si è trasformata nella voce roboante di un’opposizione troppo silenziosa. Alcuni dei passanti-manifestanti sempre meno timidi si spostano dal Parlamento al palazzo presidenziale in cui il capo dello stato ha fatto il suo discorso da leader. Sono ancora troppo pochi, ma il momento di contarsi è questa sera: alle 7 in viale Rustaveli, l’appuntamento lo ha dato la presidente. Per quell’ora sarà arrivato anche il primo ministro ungherese Viktor Orbán.



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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull’Unione europea, scritto su carta e “a voce”. E’ autrice del podcast “Diventare Zelensky”. In libreria con “La cortina di vetro” (Mondadori)

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