La nazione che più di ogni altra al mondo è nata, cresciuta e ha prosperato con l’immigrazione, periodicamente si divide su questo tema. Così, alla vigilia delle elezioni presidenziali, gli Stati Uniti si rivoltano contro ciò che fu all’origine delle loro fortune
Donald Trump li vuole deportare, espellere a milioni. Caccerà 15 o 20 milioni di persone, ha detto. Quindi non solo gli illegali, ma anche i legittimi, chi ha status da profugo, come gli haitiani, fantasiosamente accusati di mangiare cani e gatti domestici. Rastrellarli e cacciarli sarà “a bloody story”, una faccenda sanguinosa. Parole sue. Finito il tempo in cui il resto dell’America spediva – sempre parole sue – “negli Stati Uniti i loro assassini, i loro stupratori, i loro delinquenti”. Sarà, promette, la più grande operazione di polizia di tutti i tempi. Anzi, un’operazione militare. Senza riguardi per nessuno: né bambini, né donne, né vecchi, senza distinzione tra colpevoli e innocenti, non per le unioni familiari, nemmeno per chi è sposato a un cittadino americano o a qualcuno legalmente residente.
Arresti di massa, campi di raccolta, espulsioni. Pena di morte per chi reagisce, ferisce o uccide un membro delle forze dell’ordine. C’è chi – tra gli aspiranti a un incarico nella possibile futura Amministrazione Trump – già pianifica nei dettagli tutta l’operazione. Pare che per condurla in porto non gli basterebbe la Guardia nazionale. Forse nemmeno l’esercito. Oltre agli sceriffi e alle polizie locali dovrebbero mobilitare anche vigilantes volontari. In confronto a Trump, e ai suoi boys della destra ultrà Usa, i nostri mangia-immigrati sembrano dei moderati. Le intemperanze di Salvini, e persino di Vannacci, fanno sorridere, più che inorridire. Tutta la faccenda Albania sembra una comica. Così come ridicola era l’idea, tanto martellata a suo tempo, del “blocco navale”.
Il tema è universale. Si pone in tutto il mondo. Ma non allo stesso modo. Se dovessimo ricondurre le cose a un genere letterario, in America sarebbe la tragedia. Da noi invece siamo alla farsa. In America sui migranti si decide anche stavolta il tutto per tutto. A cominciare da chi andrà alla Casa Bianca. Da noi è diventata, e pour cause, l’ultima delle preoccupazioni della gente. Sono stufi di sentirne parlare. In America è un tema che gronda lacrime e sangue. E’ questione di vita o di morte. Da noi invece si combatte a colpi di cavilli giuridici, codicilli e carte bollate. La situazione è grave, ma non è seria, si diceva una volta.
L’America si è sempre divisa a sangue sull’immigrazione. E’ uno dei tanti paradossi. La nazione che più di ogni altra al mondo è nata, è cresciuta, ha prosperato con l’immigrazione, periodicamente si divide rabbiosamente sugli immigrati. Li accoglie, sia pure storcendo il naso. Li usa, li sfrutta. E poi li vorrebbe cacciare o addirittura massacrare. Succede ogni volta che gira il vento. Avevano importato con violenze atroci dall’Africa i neri, perché lavorassero nelle piantagioni. Quando furono liberati volevano linciarli. E’ la scena madre di Birth of a Nation, il film epopea di Griffith. La motivazione è sempre quella: per tenere a freno bruti e delinquenti che stuprano e molestano, serve polso di ferro. Il Ku-Klux-Klan, quando ci vuole ci vuole, è la morale della favola.
In tutta la storia degli Stati Uniti si alternano ciclicamente momenti di grande apertura e di feroce chiusura. Avevano importato i cinesi. Costavano anche meno degli schiavi neri. Gli servirono a costruire le ferrovie. Il Chinese Exclusion Act del 1882 bandiva ogni arrivo di cinesi. Ne seguirono altri. Ci furono bandi per gli ebrei in fuga dai pogrom, dalle guerre e dalla miseria dell’est. E poi anche per quelli in fuga dai nazisti. E bandi per gli irlandesi, gli italiani (delinquenti, mafiosi, portatori di malattie), e così via. Ma le acciaierie di Pittsburgh e le fabbriche di Detroit reclamavano nuovi arrivi.
Sarebbe stato impossibile per gli Stati Uniti vincere la guerra, e più ancora avere il boom del dopoguerra, senza nuove ondate di immigrati. West Side Story, il film del 1957 con le musiche di Leonard Bernstein, aveva commosso generazioni di spettatori con “I want to be in America / Everything is free in America”, cantata dalla dolce Anita, la portoricana. Chi non la sente risuonare nelle orecchie? A New York abitavo nel quartiere, un tempo di immigrati, dove nel film giocavano, amavano e si scontravano i ragazzini portoricani e irlandesi. Ora è uno dei più ambiti e costosi di Manhattan. Era seguito uno dei periodi di maggiore apertura nella storia degli Stati Uniti. L’Immigration and Naturalization Act del 1965 aveva tolto ogni discriminazione in base al paese d’origine, alla razza, alla religione. E fu un nuovo boom economico, di immigrazione, di progresso e di libertà: i favolosi anni 60 e 70. 1880-1924 e 1970-1998 sono i due periodi in cui si batte ogni record di immigrazione. E di crescita. Spinta e controspinta, due passi avanti e uno o due passi indietro. E’ sempre successo così. Ora il backlash, il colpo di frusta, è contro i messicani e gli altri sudamericani.
L’immigrazione è questione piena di paradossi. Per continuare a crescere e svilupparsi, i paesi più industrializzati hanno sempre avuto bisogno di forza-lavoro immigrata. Vale in modo anche molto più drammatico per i paesi in calo demografico. Il Giappone, in precipitoso invecchiamento, è fermo da quarant’anni. Non si è mai neanche posto il problema di accogliere migranti. Per loro coreani, cinesi, filippini sono bestie. Li indicano con un gesto fatto con le quattro dita. Anche la Cina, che pure ha avuto negli ultimi decenni la più fenomenale immigrazione dalle campagne verso le città (mezzo miliardo di immigrati interni), comincia a sentire, e in modo molto doloroso, i morsi del calo demografico. La Russia non si è mai ripresa dal calo demografico vertiginoso degli ultimi anni sovietici e degli anni di Eltsin. L’Italia è capofila del calo demografico in Europa. Il Centro studi della Confindustria ha appena confermato che nel prossimo quinquennio rischiamo un deficit di 1,3 milioni di lavoratori. Per non chiudere i battenti le imprese avrebbero bisogno di almeno 120.000 nuovi arrivi dall’estero all’anno. Previdente, Confindustria Friuli-Venezia Giulia ha cominciato a finanziare corsi di formazione in Africa. Se l’economia Usa continua ad andare come un treno è anche grazie al fatto che sinora l’arrivo di nuovi immigrati ha coperto e sopravanzato il calo demografico che ci si poteva aspettare. Le proiezioni su quel che costerebbero all’industria e all’economia americana i piani di espulsioni di Trump sono terrificanti.
Da dove viene tutta questa pulsione suicida, la febbre anti immigrati che sta traversando tutto l’occidente? Perché tutta questa voglia matta di ammazzare la gallina dalle uova d’oro, di ributtare a mare i propri immigrati? E’ un dato di fatto, matematico, non contestabile, che nelle società che stanno invecchiando, tasse e pensioni peseranno sempre più sui giovani. E, in modo specifico, sugli immigrati, che sono giovani quasi per definizione. I vecchi sono quelli che ricevono più benefici dalla spesa pubblica. Costano in pensioni e in sanità. Gli immigrati sono quelli che contribuiscono di più, coprono le spese. E in cambio ricevono meno servizi. Per una ragione molto semplice: sono molto più giovani, e in genere in miglior salute degli anziani. Uno degli argomenti più ricorrenti nella polemica anti immigrati, che sottrarrebbero risorse all’assistenza e al welfare, che affollerebbero e intaserebbero i servizi sociali.
E’ vero esattamente il contrario. Ma ci sono argomenti su cui fatti e statistiche non contano. Pesano solo le sensazioni e i sentito dire. Siete mai stati in fila allo sportello prenotazioni di un ospedale? “A me la TAC mai. Agli immigrati gliela fanno subito”. Ricordate la polemica sulle assegnazioni degli alloggi pubblici? Come osano non darli prima agli italiani? E la fola sugli immigrati clandestini ospitati in alberghi tre stelle? Una bufala pazzesca. Le fake news piovono a raffica. L’America che si avvia alle presidenziali è tappezzata da un manifesto che riproduce un fucile d’assalto. Vi si legge che, mentre sono appena 400 le persone uccise ogni anno da armi da fuoco, sarebbero ben 4.000 le persone ammazzate da immigrati clandestini. E si rincara con sarcasmo: “Diamogli pure 2.200 dollari al mese in assistenza a carico dei contribuenti, diamogli il diritto di voto, e continuiamo a tenere aperte le frontiere di modo che ne vengano ancora di più”. Nessuno dei numeri ha il minimo fondamento. Tra gli autori di omicidi la proporzione relativa di americani è molto superiore a quella degli immigrati.
Il paradosso dei paradossi è che un paese che tende a diventare invivibile per i suoi vecchi (e tanto più invivibile quanto più questi divengono numerosi) finisca con l’odiare allo stesso tempo i propri giovani e i propri immigrati. Un suggestivo studio, molto matematico, di Valerio Dotti, del dipartimento di Economia della Ca’ Foscari a Venezia, pubblicato sul britannico Journal of Public Economics (online dall’agosto 2024), col titolo “No country for young people? The rise of anti-immigration politics in ageing societies” indaga sul fatto che proprio gli anziani, che sarebbero i maggiori beneficiari della presenza degli immigrati, tendono a votare per i partiti e le formazioni politiche che ce l’hanno con gli immigrati, e, al tempo stesso, per chi gli promette maggiori benefici e maggiore spesa pubblica. I vecchi politicamente contano più dei giovani, hanno un maggiore peso specifico elettorale. E sono più egoisti dei giovani, tendono ad essere incuranti del fatto che il debito pubblico finirà col pesare sulle generazioni successive. Ad essere fregati sono i giovani. E gli immigrati, che sono giovani. Il colmo è che non è detto che se ne stiano accorgendo. Gli uni come gli altri.
Tra gli altri paradossi: il fatto che ad avercela più visceralmente coi nuovi immigrati siano dei vecchi immigrati, quelli che in qualche modo si sono già integrati. Dimentichi delle umiliazioni subite un tempo, di come una volta venivano tacciati delle stesse infamie attribuite ai nuovi arrivati, additati al disprezzo, tracciano linee di demarcazione immaginarie: noi abbiamo fatto sacrifici, abbiamo lavorato duro, questi nuovi arrivati non hanno voglia di fare niente, pensano che tutto gli sia dovuto, sono dei pericolosi delinquenti. E’ il ragionamento che in Inghilterra ha spinto gli immigrati di più vecchia data a votare per Brexit e per norme più dure. Che spinge i figli di quelli che un tempo venivano disprezzati come “terroni” a votare per la Lega, o una parte dei dimenticati delle banlieue a votare gli xenofobi. Non è un fenomeno inaudito. Negli anni 30 molti ebrei tedeschi convenivano con la rappresentazione dei nuovi arrivati dall’est come rozzi, ignoranti, delinquenti, e concordavano con il blocco dell’immigrazione e la spietata politica di espulsioni del cancellierato di Hitler.
Meno sorprendente ancora è che infastiditi dall’immigrazione siano operai e sindacati. In America i movimenti, anche estremamente violenti, più rabbiosamente razzisti, contro gli immigrati nascono come difesa dei posti di lavoro minacciati dai nuovi arrivati che accettano di farsi pagare di meno. Sono sindacalisti a guidare i pogrom anticinesi di inizi ‘900 in California. A mietere consensi nel sud sono populisti razzisti, segregazionisti, ma con aura da progressista, come l’ex governatore dell’Alabama George Wallace. Periodicamente ritorna l’accusa di deliberata “sostituzione etnica” (s’intende: dei bianchi a opera di non bianchi). Senza che gli accusatori si rendano minimamente conto dell’assurdità del concetto per un paese nato e formatosi in base a una “sostituzione etnica” dopo l’altra. Nel 2016 Trump aveva vinto grazie ai “dimenticati” della rust belt, della cintura industriale arrugginita e disastrata. Stavolta la Harris deve guardarsi dalla disaffezione di ispanici e neri, molto prima che dall’avversione dei redneck, i bianchi diseredati del sud e degli Appalachi.
E Harris deve guardarsi anche da chi, tra i suoi elettori “naturali”, la accusa di essersi collocata sulla questione immigrazione a ruota di Trump, anziché contrastarlo come avrebbe dovuto. Biden era arrivato alla Casa Bianca promettendo la fine delle politiche migratorie “disumane e fondate sul terrore” e la promozione di “leggi che riflettano i valori di una nazione di migranti”. Ma l’Amministrazione Biden ha respinto più migranti di quanti ne avesse respinti Trump. Dando nel contempo l’impressione di non fare niente per arrestare l’invasione, la valanga, l’alluvione, il rigurgito di fogna, come martella la propaganda xenofoba. Harris si è barcamenata, sostenendo che avrebbe fatto meglio. Ma l’elettore tra il severo a metà e il cattivo originale tende a scegliere in genere l’originale.
E’ l’avversione agli immigrati nell’opinione pubblica a spingere la xenofobia dei politici? O viceversa è la politica delle destre a spingere una parte dell’opinione pubblica alla xenofobia e ai razzismi più o meno dichiarati? E’ una domanda oziosa, un po’ come chiedersi se viene prima l’uovo o la gallina. Una cosa evidentemente tira l’altra. Malcontento, rabbia, senso di insicurezza portano gli elettori a seguire chi gli promette polso di ferro nei confronti di un facile capro espiatorio. Il candidato che ha capito cosa vogliono gli elettori, gli liscia il pelo, anzi li incita, solletica i peggiori istinti. Nel 2016 Trump aveva vinto rivolgendosi “a quegli americani che scoprono che il loro posto di lavoro non è poi così sicuro, che i loro risparmi si stanno svalutando, che i loro quartieri, le loro scuole e le loro case non sono sicuri, che i leader che hanno eletto sono indifferenti, e spesso anche corrotti, che le loro convinzioni morali, la loro fede religiosa, i loro codici di comportamento sociale sono sotto attacco anche da parte del governo, che ai loro figli viene insegnato il disprezzo di ciò a cui loro credono. Che la loro identità e il loro retaggio è minacciato, e che il loro futuro – politico, economico, culturale, nazionale e personale – è incerto…”. Che Dio gliela mandi, ce la mandi, buona.