Intellettuali, politici e giornalisti. Chi cerca alibi, chi depista, chi marcia sotto i vessilli della jihad. Uno strano arcipelago che per Sinwar e Nasrallah non lesina pietà e ardore
La scorsa settimana c’era sollievo sulla Sonnenallee di Berlino, come nelle strade di Gaza. Le persone hanno portato le bandiere della Palestina, si sono abbracciate e hanno distribuito baklava, come a Milano, a Londra, a New York, a Sydney, a Parigi. Atmosfera a festa per l’eliminazione di Hassan Nasrallah e Yahya Sinwar. No? Nessuna foto o video simili? Nessuno che abbia offerto tortine di pasta sfoglia ripiene di pistacchi e imbevute di sciroppo per festeggiare la scomparsa del macellaio di Khan Younis che aveva annunciato il “sacrificio di centomila palestinesi” nella sua guerra a Israele? Dopo il 7 ottobre, dalla Sonnenallee alle altre città occidentali, era stata festa e ancora questa settimana la foto di Sinwar è offerta alle telecamere nei cortei di antagonisti italiani, come a Cagliari. Dilettanti, Osama bin Laden e Abu Bakr al Baghdadi: nessuna foto in piazza e nessun editoriale (o quasi) che li difendesse (il mullah Omar si è dovuto accontentare dell’eloquio di Massimo Fini).
Bonn, Germania. L’immagine è pubblicata dalla Welt. Si vedono tre ragazze occidentali. Uno guarda a sinistra, sorridendo. In testa, una kefiah. Poi una seconda di profilo. Indossa anche con la kefiah, ma a tracolla sopra una borsa. Irradiano calma e fiducia: sono nel posto giusto al momento giusto. Una terza, senza kefiah e con una borsa a tracolla, è di spalle. Poi una persona in mano tiene un poster, c’è scritto “Che ogni giorno sia il 7 ottobre”. Nessuna delle persone presenti sembra turbata o infastidita dalla frase, tanto meno protesta.
“E’ morto un eroe, questo martire è uno dei più fortunati tra noi”. Così su Sinwar un consigliere municipale francese di Grand Charmont. Intanto a Poitiers, a qualcuno veniva l’idea di cambiare nome a una strada, intitolandola allo sceicco Yassin, fondatore di Hamas. Ma l’islamogoscismo, ripetono, è solo un complotto di estrema destra. La femminista inglese Clementine Ford intanto pubblicava una clip sui social che collega Sinwar a Gesù: “Quando le autorità hanno ucciso quel tizio di Nazareth, credevano di aver annientato tutto il suo movimento, ora contiamo il tempo dall’anno della sua nascita”. Forse memore di quando Yassin, che incaricò Sinwar di uccidere i “collaboratori di Israele”, gli uomini accusati di atti omosessuali e le donne di relazioni extraconiugali, il giorno dopo il suo assassinio è stato paragonato a Gesù sul quotidiano olandese Nieuwsblad.
Il Tg3, la vecchia cara TeleKabul, ha mandato in onda un servizio con le immagini di Sinwar morente e prima in un tunnel, accompagnate da un commento: “Dopo aver ucciso Sinwar, rendendolo un martire agli occhi di milioni di persone, Israele tenta di screditarne l’immagine diffondendo un video in cui il leader di Hamas e la sua famiglia si mettono al sicuro in un tunnel prima del 7 ottobre”. Forse il fratello di Sinwar Mohammed aveva hackerato il tg Rai. Perché neanche al Aqsa Tv avrebbe saputo scrivere una cosa del genere. E neanche Jeremy Corbyn, l’ex leader della sinistra britannica che ha definito “una tragedia” l’uccisione di Osama bin Laden, la cui “Lettera all’America” da un anno va molto su TikTok, quest’organo di propaganda cinese per occidentali lobotomizzati.
Intanto la magistratura belga ordinava il non luogo a procedere contro Herman Brusselmans, scrittore belga, che sulla rivista Humo ha pubblicato un articolo in cui dice: “Vorrei conficcare un coltello nella gola di ogni ebreo che incontro”. E poi dicono che Bruxelles non assomiglia a Eurabia. “Allah! Espelleremo in massa gli occupanti di al Quds! Allah, brucia gli ebrei, oh Allah!”. Questo il coro davanti al palazzo del Parlamento europeo. Intanto, nella capitale belga, si marciava con le foto di Sinwar.
Alla fine di gennaio, l’ufficio stampa di Hamas ha diffuso un documento intitolato “La nostra narrazione sull’operazione Alluvione di al Aqsa”. Il libretto, lungo sedici pagine, era pieno di affermazioni che sembrano arrivare da giornalisti e attivisti occidentali per cui l’attacco del 7 ottobre è stato un atto di “resistenza” nel quadro della “lotta contro l’occupazione israeliana”.
Ogni professionista della comunicazione lo sa: per trasmettere un messaggio a un pubblico specifico, niente è più efficace che adottarne i “codici”. Codici occidentali che Hamas conosce molto bene. Il numero due di Hamas, Moussa Abu Marzouk, ha conseguito master e dottorato in America. Senza contare che il gruppo collabora con opinionisti e dispone di relè, come il canale qatariota Al Jazeera, in grado di sondare l’opinione pubblica occidentale. Il New York Times ha pubblicato un articolo del famoso “sindaco di Gaza City” scelto da Hamas, Yahya Sarraj, neanche fosse Gualtieri. “Mi chiedo: il New York Times pubblicherebbe anche un op-ed di al Qaeda che giustifica l’11 settembre?”, ha twittato Arsen Ostrovsky, avvocato internazionale per i diritti umani. Nessuna protesta dello staff del Times. La vecchia signora del giornalismo ha pubblicato anche un articolo di un leader dei talebani, Sirajuddin Haqqani, nella cui casa è stato ucciso il leader di al Qaeda Ayman al Zawahiri, il “dottore”.
Adam Rubenstein sull’Atlantic ha pubblicato un clamoroso articolo-confessione sotto il titolo di “Ero un eretico al New York Times”: “Abbiamo pubblicato un articolo del sindaco di Gaza City nominato da Hamas e pochi sembravano preoccuparsene”, scrive Rubenstein. “Nessuno scalpore. Ma se il giornale sia disposto a pubblicare opinioni conservatrici su questioni politiche controverse, come aborto e Secondo Emendamento, rimane una questione aperta”. Piuttosto, questione chiusa.
Intanto più di un intellettuale di sinistra, la vecchia gauche caviar diventata gauche di Allah, ha trovato più di un alibi al 7 ottobre. Françoise Vergès, accademica decorata della Legion d’onore, teorica della nuova decolonizzazione, ha salutato la “lotta legittima per la liberazione” dei palestinesi. François Burgat, islamologo di rango al Cnrs, ha scritto: “Resistere all’occupante è legittimo”. La stampa è finita in un vortice di giustificazionismi incrociati. Un articolo della Süddeutsche Zeitung di Monaco aveva già attribuito la colpa del terrorismo direttamente a Israele. Titolo: “Israele soffre per il suo ciclo di vendetta”. Un po’ come quei famosi filosofi che diedero agli ebrei la colpa della Shoah. Tre mesi prima del 7 ottobre, la tv pubblica francese France 24 ha sospeso alcuni giornalisti: inneggiavano a Hamas.
Un’intervista, pubblicata nel 2021 da Vice, è riemersa sui social. Di fronte alla telecamera, Yahya Sinwar puntava già al sostegno occidentale, sostenendo che “lo stesso tipo di razzismo che ha ucciso George Floyd è usato da Israele contro i palestinesi”. Messaggio ricevuto! E appena diffuso dal celebre romanziere americano Ta-Nehisi Coates in un libro, “The message”, in cui paragona i palestinesi ai neri d’America. Coates scrive: “C’erano soldati ‘neri’ ovunque che spadroneggiavano sui palestinesi, molti dei quali, in America, sarebbero stati visti come ‘bianchi’”. Sinwar, questo genietto del male, alle marce del ritorno del 2018 al confine fra Gaza e Israele faceva portare grandi ritratti di Nelson Mandela.
Sul quotidiano francese Libération, Michael Smadja ha scritto: “Se fossi nato Gaza, avrei fatto parte di Hamas”. E se un parlamentare lib-dem in coalizione con i Tory, David Ward, ha scritto che “se vivessi a Gaza, sparerei un razzo”, c’era stato un filosofo gay e comunista italiano che di razzi migliori e più efficienti voleva comprarne a Hamas, mentre questa settimana batteva un appello di Pedro Almodóvar per l’embargo totale a Israele. Totale, neanche un bullone arrivi agli ebrei, perché per dirla con il famoso compositore greco Mikis Theodorakis, sono “la radice di tutti i mali”. In qualche modo bisognerà pur fargliela pagare.
Ci sono le vedove, i complici, i tiepidi e gli utili idioti. Nella seconda categoria rientrano quelli condensati nel 1974 dal grande scrittore maledetto Jean Genet, celebrità indiscussa della sinistra, che così spiegò il suo attaccamento alla causa palestinese: “Per me era del tutto naturale favorire non solo i più svantaggiati, ma anche coloro che distillano l’odio per l’occidente in modo più puro”. Quanto ai tiepidi è difficile sintetizzarli meglio dell’autorevole rivista New York Review of Books, che ha pubblicato un titolo che sembra uscito da Woody Allen: “Hamas: ultima chance per la pace”. Quanta buona volontà progressista.
Allo Spiegel, il premio Nobel per la Letteratura Günter Grass disse di avere una soluzione al conflitto mediorientale: “Israele deve lasciare non solo i territori occupati, anche l’occupazione della terra palestinese è un atto criminale”. Tradotto: via dalle terre del 1967 e del 1948. Ritorno in Europa. Sinwar annuiva. D’altronde la Friedrich Ebert Stiftung, fondazione ammiraglia dei Socialdemocratici, ha organizzato un summit a Beirut con Hamas e Hezbollah.
Il Dagens Nyheter, il più intellettuale e sofisticato quotidiano svedese, ha pubblicato “Perché è permesso odiare gli ebrei”. L’autore, uno storico delle religioni, spiegava che fino a che Israele occuperà, l’odio islamico per lo stato ebraico sarà giustificato. Sinwar annuiva. Sul Lancet una delle firme della lettera su Gaza è di un medico norvegese, Mads Gilbert, che dopo gli attacchi dell’11 settembre dichiarò al Dagbladet: “Gli oppressi hanno il diritto morale di attaccare con le armi”. Tom Paulin, un docente di letteratura a Oxford, ha detto che gli “ebrei di Brooklyn” che si sono insediati in Cisgiordania dovrebbero essere “accoppati” da Hamas, senza tanti giri di parole. Sinwar annuiva ancora, ammirato. E dopo aver a lungo accolto i quadri degli impressionisti, il glorioso museo Jeu de Paume di Parigi ha allestito una mostra che inneggia ai terroristi di Hamas. Un’installazione nell’edificio ospitato dal giardino delle Tuileries a opera di Ahlam Shibli e intitolata “Morte”. Fotografie di terroristi palestinesi, indicati come “coloro che hanno sacrificato la propria vita lottando contro l’occupazione”. Sinwar continua ad annuire, ammirato. Come quando ha letto alcune pagine di quell’insigne storico che scrive: “I combattenti palestinesi che sgusciano fuori dai tunnel per colpire un esercito di occupazione che li definisce ‘animali’ non possono fare a meno di evocare i combattenti ebrei del ghetto”. E non è certo solo. Da Masha Gessen, che paragona Gaza al ghetto di Varsavia, al più ambizioso Nobel José Saramago, che evoca Auschwitz, questi israeliani sono nazisti reincarnati.
La Bbc, che non è La7 ma la tv pubblica più rispettata del mondo, ha imposto a un regista israeliano di non chiamare “terroristi” i terroristi di Hamas nel suo documentario sulla strage di 364 israeliani, urgevano nuove espressioni, più innocue, per i capi del jihad. Vada per “militants”. Come i militanti per i diritti degli animali.
Non si poteva comunque fare meglio del Washington Post, quello della democracy che muore in the darkness eccetera, e che il califfo stupratore seriale Abu Bakr al Baghdadi ha definito “austere religious scholar”, insomma una specie di cardinale conservatore, solo un po’ più cattivo. E pensare che se il New York Times e il Monde definiscono Sinwar “militant leader”, il canale saudita Mbc è minacciato di chiusura in Iraq per aver definito il capo di Hamas “terrorista”. Il Washington Post ha fatto il bis, definendo l’iraniano Qassem Suleimani “venerato capo militare”.
Con Sinwar era difficile ripetere l’operazione di Rolling Stone su Dzhokhar Tsarnaev che, insieme al fratello Tamerlan, fece strage alla maratona di Boston. La foto di copertina lo ritrae come una specie di Jim Morrison islamico e se ne parlava “come uno studente promettente e popolare sia stato rovinato dalla sua famiglia, sia finito preda dell’islam radicale e sia diventato un mostro”. Mostri? “Perché la morte da guerriero di Sinwar gli farà guadagnare lo status di martire”: questo il titolo del Guardian, il vecchio giornale degli operai inglesi diventato una specie di bollettino delle ricche e woke chattering classes londinesi, che paragona il capo di Hamas a Guevara, il “medico argentino” (con Sinwar aveva in comune un certo disprezzo per gli omosessuali).
Ma d’altronde il Guardian ha pubblicato anche editoriali che sembrano usciti da un comunicato di Hamas: “Israele non ha diritto di esistere”. Lo stesso Guardian che ospita editoriali di Marwan Barghouti, il capo della Seconda Intifada, cinque ergastoli e che Sinwar voleva tirare fuori di prigione se avesse convinto Israele al ricatto dello scambio di ostaggi per mille terroristi palestinesi. Lo stesso Guardian che qualche giorno fa ha dovuto chiedere scusa per aver criticato un documentario israeliano in cui i sopravvissuti al pogrom attaccano Hamas.
“Combattente, portatore della bandiera della resistenza, stimato studioso religioso e saggio leader politico”. “Studioso islamico qualificato, oratore pubblico efficace e organizzatore competente”. Il primo è il commento dell’Iran su Nasrallah. Il secondo è del Guardian. Associated Press: “Carismatico e astuto: uno sguardo a Nasrallah”. E poi “considerato un pragmatico… idolatrato dai suoi seguaci… rispettato da milioni di persone nel mondo arabo e islamico”. Nasrallah “acerrimo nemico di Israele” e “oratore focoso visto come un estremista”. Visto? Il New York Times parla di Nasrallah come di un “oratore dotato” che “sosteneva che ci dovesse essere una Palestina con uguaglianza per musulmani, ebrei e cristiani”. Una specie di Pizzaballa, solo un po’ più agguerrito. “Una figura paterna e morale”, secondo il Washington Post, che aggiungeva: “Ha dato consigli su argomenti che spaziavano da complicati eventi regionali all’igiene personale durante la pandemia di Covid”. Nasrallah epidemiologo buono.
Anche Ismail Haniyeh, che ha trovato la morte in una casa a Teheran e non in un buco a Rafah ma pur sempre un “resistente”, ha goduto di ottima stampa. Sophia Chikirou, deputata della France insoumise, lo ha commemorato come “martire”. “Rappresentava l’ala relativamente moderata di Hamas ed era considerato più pragmatico che intransigente”, secondo lo Spiegel. “Haniyeh relativamente moderato”, la Reuters. Forse non avevano visto Haniyeh in preghiera a Doha davanti alla tv mentre scorrevano le immagini dei kibbutz distrutti dai suoi sgherri. Era comunque “pragmatico” e “aperto alla negoziazione”, secondo il Guardian.
In Italia non è andata meglio. “Haniyeh, figlio di pescatori, la vita da mediano del professore di letteratura diventato leader politico Hamas”. Così la Repubblica. “Uomo pragmatico e portato al dialogo”: l’Unità sull’altro leader di Hamas, Khaled Meshaal, che per Repubblica è un “martire vivente”. Come l’ex presentatrice dei tg Rai che su La7 ha detto che è sbagliato parlare di Hezbollah come di terroristi. “Si occupano anche di sanità e di disabili”. Altro che isolamento di Hamas. I vescovi italiani hanno dialogato con l’imam Mohammad Khalil, che dopo il 7 ottobre ha detto che quella palestinese è solo “resistenza”, e con l’imam Brahim Baya, assurto alle cronache per la preghiera all’Università di Torino.
Li hanno proprio “normalizzati i massacri”, considerando che un giovane americano su due fra 18 e 24 anni in un sondaggio Harris-Harvard si dice pronto a consegnare Israele a Hamas. Un sorprendente 51 per cento considera gli attacchi terroristici di Hamas contro i civili “giustificati”.
Armon Rosen su Unherd ha scritto su Sinwar: “Aveva capito di avere il sostegno di una sinistra istituzionale globale e sempre più importante, un elettorato d’élite nei paesi occidentali che ha abbracciato rapidamente la sua causa dopo il 7 ottobre. La legittimità morale e la reputazione internazionale di Hamas sono cresciute dopo il 7 ottobre. Sinwar ha dimostrato che stuprare e massacrare gli israeliani non ti rende automaticamente un nemico della civiltà, nemmeno per gli Stati Uniti”.
E così Ted Honderich, professore di filosofia all’University College di Londra, esperto di Mill, Russell e Marx, che ha pubblicato una lettera sul Guardian in cui sembrava giustificare l’uccisione di civili israeliani: “I palestinesi hanno un diritto morale al terrorismo all’interno della Palestina storica contro il neo-sionismo”.
L’allora ministro laburista inglese Clare Short invitò il leader di Hamas Meshaal a parlare ai politici britannici. Parlamentari dei Libdem inglesi erano anche andati a Gaza a stringere la mano a Haniyeh.
Hezbollah seduce un po’ meno il pubblico occidentale, sarà perché i suoi terroristi non sono palestinesi e Beirut non è Gaza, anche se quanto a scudi umani non è da meno. E non mancano schiere di pellegrini politici neanche a Beirut. Il capo della sinistra francese, Jean-Luc Mélenchon, ha detto che Hezbollah è “una componente del popolo libanese” e che uccidere Sinwar è stato “un errore”. Nel genere dei disinibiti, spicca lo stupefacente necrologio pubblicato dal Monde di Nasrallah, “leader carismatico” che “incarnò la resistenza a Israele nel mondo arabo”, dove fu “adulato come un nuovo Nasser o un Che Guevara arabo”. Tra i pellegrini si va dallo storico Norman Finkelstein a Noam Chomsky, il famoso linguista padrino dell’antagonismo occidentale che è riuscito a schierarsi perfino con la Cambogia di Pol Pot, e che ha visitato il quartier generale di Hezbollah e incontrato il suo leader, Nasrallah. “Penso che Nasrallah abbia un argomento ragionato e convincente sul fatto che dovrebbero essere nelle mani di Hezbollah (le armi) come deterrente a potenziali aggressioni”, disse Chomsky. Visita che ha messo in chiaro un punto cruciale: secondo il nuovo pensiero che avanza in America e in Europa, dovevamo abituarci a convivere con Hezbollah e Hamas.
La preparazione del terreno morale su cui costruire la storica riconciliazione con il jihadismo islamista era già in stadio avanzato. Peccato che Israele si fosse messo in mezzo. Un esperto di politica internazionale qualche giorno fa è andato sull tv italiana a dire che, a differenza di Israele, Hezbollah ha un “lato razionale e umanitario”. Pensa un po’.
Una delegazione accademica italiana è partita dalla Sapienza per incontrare i capi di Hezbollah. La notizia è stata divulgata da Al Manar, l’emittente di Hezbollah, e il commento del conduttore racconta che la docente che guidava il gruppo con l’immancabile hijab si è detta “felice di questo incontro con Hezbollah e quando ritorneremo in Italia diremo all’occidente la verità sull’organizzazione”.
Impossibile dimenticare la famosa passeggiata a Beirut di un ex primo ministro e ministro degli Esteri italiano sottobraccio con il deputato di Hezbollah Hussein Hassan. Ma è un altro leader della sinistra italiana, ex ministro della Giustizia e segretario dei Comunisti italiani, a detenere un proprio record personale: incontrare Nasrallah nel suo bunker. Ambizioso più del sindaco laburista di Londra, Ken Livingstone, “il Rosso”, che dialogava con Yusuf al Qaradawi, guida spirituale dei Fratelli musulmani (e di Hamas) che aveva giustificato gli attentati suicidi contro gli ebrei israeliani (anche contro le donne incinte, madri di futuri soldati israeliani).
Dice lo scrittore algerino Boualem Sansal: “Giocare alla democrazia per conquistare il potere è ammissibile per gli islamisti solo nel quadro della taqiya. Una volta al potere, cancelleremo tutto e sottometteremo tutti. Oggi gli islamisti in Europa sono forti e consapevoli della propria forza e non hanno più bisogno di recitare la commedia del musulmano moderno che adora la democrazia e la laicità, per circondarsi di utili idioti da tribuna. Sanno che questa Europa cadrà come un frutto maturo senza che ci sia bisogno di muoverle una vera guerra. Gli islamisti sono pazienti, la loro forza è lì, sanno che il tempo lavora per loro. Nella strategia dell’internazionale islamista, l’Europa è una terra privilegiata, è Vienna che ha infranto il sogno dei primi conquistatori musulmani, è Roma, la sede della cristianità, è la Francia, figlia primogenita della Chiesa, è Londra che si apre all’America. L’Europa non immagina cosa rappresenta per l’islam e i musulmani presi nella mistica del jihad di conquista, del jihad di vendetta, tutto il resto sono solo dettagli”.
Dettagli. Come il Qatar, cassaforte e resort di Hamas, che ha appena dato cinquanta milioni di euro alla città di Venezia per avere un suo padiglione ai Giardini della Biennale. Fa sempre molto woke. Installeranno, come al museo parigino, i volti dei capi di Hamas, il resistente Sinwat, il partigiano Deif, il moderato Haniyeh, il martire Yassin e il dottore Rantisi? D’altronde nei giardini della Jihad, che profumano di politically correct, hanno visto fiorire il progresso.