Il mio incontro ravvicinato con il più grande, Muhammad Ali

Da Meryl Streep a McEnroe, fino al leggendario campione del pugilato, che non ha smesso mai di splendere nonostante la malattia: Antonio Monda racconta in un nuovo libro tutti i più grandi personaggi del mondo dello spettacolo e dello sport che ha conosciuto nella sua carriera

Questo testo è tratto da “Incontri ravvicinati“, il libro di Antonio Monda pubblicato da La Nave di Teseo in cui l’autore racconta una serie di incontri sorprendenti a Meryl Streep ad Al Pacino, da Muhammad Ali a David Foster Wallace, passando per Martin Scorsese, Ingrid Bergman, Susan Sontag, Stephen King, Cate Blanchett, Philip Roth, Robert De Niro, Toni Morrison, Gore Vidal e molti altri (compreso McEnroe).


La prima volta che l’ho visto di persona ero seduto sugli spalti del Madison Square Garden e lui apparve a sorpresa all’interno dello stadio. Non mi resi conto subito di cosa stesse succedendo, ma appena lo riconobbi fui travolto, come tutti, dall’emozione. Ero andato ad assistere con assoluto disincanto al match tra Tim Witherspoon e James Smith, due pugili troppo modesti per contendersi il titolo mondiale. Ma all’improvviso avvenne il miracolo: tutti gli spettatori si alzarono in piedi e per un momento ci fu un silenzio pieno di commozione. Poi parti all’unisono un urlo fortissimo, quasi un canto, e tutto lo stadio, dalle ultime gradinate sino a bordo ring, comincio a ritmare: “Ali! Ali! Ali!!!” E poi più forte, sempre più forte: “Ali! Ali! Ali!!!” Era un’invocazione, un canto, una preghiera e non esisteva più nient’altro in tutta l’arena mentre Muhammad Ali avanzava lentamente verso il proprio posto: era già segnato dalla malattia e portava gli occhiali scuri.

Ero commosso anch’io, e mi chiesi cosa rappresentasse “il più grande” per tutta quella gente con le lacrime agli occhi: uomini e donne di età, razze, tradizioni, religioni e idee politiche diverse. Mi chiesi perché continuava a essere un mito al di là del suo inimitabile talento sul ring, la bellezza regale, il carisma sfacciato, le battute geniali, la riconquista per tre volte del titolo contro tutti i pronostici. Non sono mancati, nella sua vita, i gesti discutibili e anche sbagliati: eppure la leggenda era ed e rimasta intatta, perché quanto ha fatto di straordinario e riuscito a cancellare ogni ombra. Dopo quell’apparizione sono riuscito a incontrarlo soltanto due volte, e ho avuto la conferma che ciò che lo rende irresistibile, e lo differenzia da ogni altro campione, non è il talento, l’imprevedibilità o la genialità sul ring, ma il coraggio che ha dimostrato dicendo no. (…)



C’è un altro elemento che ne consacra la gloria: rinunciò al titolo di campione del mondo per una questione puramente ideale, e per questo rischiò anche la galera. Da grande uomo di spettacolo, Ali motivò l’obiezione di coscienza con una battuta folgorante: “Nessun vietcong mi ha mai chiamato nigger” e venne odiato definitivamente da chi non aveva digerito che fosse diventato un Musulmano Nero, ripudiando il “nome da schiavo” Cassius Clay. Reagì con la stessa baldanza che mostrava sul ring: “Io sono l’America. Sono la parte che non riconoscete, ma dovete abituarvi. Nero, sicuro di me, superbo. Il mio nome, non il vostro, la mia religione, non la vostra, i miei obiettivi, non i vostri. Fate i conti con me.” Quando riuscii a incontrarlo dopo una lunghissima trafila di richieste, gli chiesi di partecipare a una serie di interviste sulla fede: mi interessava sentire dalla sua voce la devozione per Allah. Aveva una sincera simpatia per gli italiani, grazie all’amicizia con Gianni Minà e il ricordo della medaglia d’oro vinta alle Olimpiadi di Roma, ma disse di no, e finimmo per rievocare i match perfetti (…). Gli chiesi anche di Ernie Terrell, che massacrò per quindici round con l’intenzione di non mandarlo al tappeto: lo voleva punire più a lungo possibile perché lo aveva chiamato Cassius Clay. Non riusciva a credere che una provocazione cosi squallida provenisse da un uomo di colore, e lo colpì con crudeltà, spesso con scorrettezza, ma mai con la forza necessaria per farlo cadere, urlandogli a ogni pugno: “Come mi chiamo?”.



Quando me lo raccontò aveva la voce rallentata dal Parkinson e tremava tutto, ma la luce continuava a splendere, indifferente, in quegli occhi da re. E alla fine del racconto aggiunse: “Sono il più grande, lo so da prima che lo diventassi.” Lo pensano tuttora i fan di ogni parte del mondo, come i nove figli, le quattro mogli ripetutamente tradite e le infinite amanti, una delle quali rimase incinta quando aveva sedici anni. “Non contare i giorni,” ha detto a ognuna di loro, “ma fà che i giorni contino.” Lo vidi soltanto un’altra volta, per caso, in un albergo newyorkese, circondato dai fan. Aveva acceso da poco la torcia olimpica di Atlanta, commuovendo il mondo per come era riuscito a portare a termine il suo compito con le mani che tremavano, impietose. Gli facevano tutti i complimenti, e lui ringraziava, ma ogni gesto era faticoso e camminava con l’andatura incerta alla quale lo costringeva il morbo. Era straziante vedere ridotto in quel modo un uomo così bello e potente, ma non c’era nulla che ne sminuisse la dignità.



Quando mi avvicinai mi sorrise, ma forse non mi riconobbe. Poi, improvvisamente, un signore gli porse una foto chiamandolo “Cassius”: era solo ignoranza, ma Ali si limito a fulminarlo con lo sguardo e autografarla Muhammad Ali. Anche in quel momento, e forse proprio perché era umiliato in maniera così crudele nel fisico, pensavo che non è mai esistito un pugile come lui: per il modo in cui danzava sul ring, la velocità impressionante con cui colpiva e schivava, e l’abilità con cui metteva in soggezione gli avversari (…).

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