Il vol-au-vent di Casa Serra e l’onore salvato di Israele

Le pensose riflessioni umanitarie sull’ebreo buono e compassionevole, servite con garbo all’opinione benpensante, sono sciocchezze, gravi per disattenzione al senso delle cose

Le patenti di affidabilità democratica e di sinistra sono una specialità di Casa Serra, sono il vol-au-vent di Chef Michele, antipasto di pensose riflessioni umanitarie servite con garbo come pietanza per lo stomaco capace dell’opinione benpensante. L’ultimo caso è quello dell’ebreo buono, compassionevole, che salva l’onore di Israele perché stigmatizza il governo di Gerusalemme sotto Netanyahu come nemico della democrazia ed è in pena per il rigurgito di antisemitismo internazionale provocato dalla ferocia della guerra di Gaza e dal suo inaudito costo in vite umane. (Un sulfureo Carlo De Benedetti, intervistato con la solita verve da Aldo Cazzullo per i suoi novant’anni, auguri, ha detto che la guerra del 7 ottobre è un “fallo di reazione”. Buono come eufemismo, ma CDB sa anche lui che quella guerra è molto di più di un incidente sportivo, di una gomitata, è una tragedia incommensurabile per tutti, per israeliani e palestinesi, per ebrei e arabi, e delle tragedie ha il crisma triste e definitivo dell’inevitabilità).

La rassegna degli ebrei che salvano l’onore di Israele in realtà ha la stessa consistenza morale dell’intimazione di schierarsi fatta in base all’appartenenza: siccome sei ebreo devi stare dalla parte di Israele e delle sue scelte sempre e comunque oppure ribellarti e provare una compassione militante per le vittime di Tsahal e offrirla come pegno perfino a chi manifesta per la liberazione della Palestina “dal fiume al mare”.

Non è così, sono sciocchezze, e gravi per disattenzione al senso delle cose. In tutto quel che ha scritto Amos Oz, che fondò Peace now e aveva idee chiare sui guasti del fanatismo ideologico, c’è il senso laico dell’indecidibilità che affligge i veri conflitti, e le sue storie, come la maggiore, sono tutte intessute di amore e di tenebra, non sono parabolette umanitarie o ostentazioni di ferocia etnica. Anche Eshkol Nevo, giovane scrittore progressista, aveva raccontato la fantastica e perfino umoristica complessità della società israeliana, la sua permanente crisi identitaria, in un vecchio romanzo (“La simmetria dei desideri”) dedicato alla vita comune di quattro giovani amici che cercano di stare al riparo da quella tempesta di ogni giorno che è la coscienza nazionale di un paese in bilico. Insomma, non si può chiedere alla storica Anna Foa o a Davide Lerner, che forse è anche lui “il vero Lerner”, come il padre di Gad in “Scintille”, di salvare o compromettere l’onore di un paese che difende il suo diritto di esistere e vivere. L’onore va maneggiato con cura, specie quando c’è gente che lotta, muore e uccide intorno all’ambiguo ma decisivo perimetro del suo significato epico e umano.

A Anna Foa si possono rimproverare le sue opinioni, che sembrano tagliate con l’accetta, e questa idea balzana che Israele si stia suicidando, quando è evidente che cerca di non farsi ammazzare da una potenza prenucleare e dai molti fronti bestiali che portano la guerra nei suoi confini e nella sua tormentata coscienza. La grandissima maggioranza degli ebrei è composta di persone laiche, spesso non credenti nonostante il peso millenario della fede e delle pratiche di santificazione che essa implica per la comunità, ed è fatta di gente che studia, che interroga i fatti, costruisce le sue risposte e ne assume la responsabilità non religiosa, ma civile. Strano dovere opporre questa ovvietà a Chef Michele, ma sono gente comune, abitatori della comune umanità, non parlano ex cathedra ebraica. Possono avere ragione, possono sbagliare, come noi tutti. Soffrono, a volte, di quella particolare enfiagione del sentimento che i contemporanei hanno deciso di chiamare, con insistenza lessicale fastidiosa, “empatia”. Davide Lerner, per esempio, in nome dell’empatia ha scritto un resoconto giornalistico premiato alla Columbia, di cui è discepolo, su un villaggio al confine con Gaza. Un bel resoconto, “Il sentiero dei dieci”, una ricerca fatta sul campo, che vale la pena di leggere. Per arrivare in fondo, però, bisogna superare un fastidio. Aggirare una strana spia di strabismo umanitario. A un certo punto l’autore si fa sfuggire un giudizio empatico, ma di quelli spietati, sul festival musicale Supernova, l’attesa dell’alba nel deserto, la celebrazione new age di un tentativo di felicità in mezzo all’abbrutimento della storia. Ragazzi e ragazze sono stati falcidiati da terroristi di Hamas, com’è noto, e disonorati giusto all’alba dall’eccidio e dal sequestro di molti di loro, carico di applausi e festeggiamenti osceni della comunità di Gaza. Non è empatico suggerire, come fa Lerner il Giovane, che in quel raduno facevano musica incuranti delle sofferenze della vicina popolazione di Gaza. Ma sono cecità etiche che non dipendono dal fatto che Davide è ebreo democratico, sono frutto del wokismo umanitario, un mostro da cui guardarsi, grande come il mostro dell’indifferenza.

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  • Giuliano Ferrara
    Fondatore
  • “Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.

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