Virginia Woolf, Marcel Proust, Ernest Hemingway: solo alcuni esempi che Rosa Montero racconta nel suo ultimo travolgente libro per ricordarci quanto chi vive del suo talento artistico, immerso nei dubbi ossessivi sull’assurdità della vita, sia molto più incline al dolore rispetto agli altri. Ma scrivere rimane il vero salvagente
“Scrivere è giocare con un giocattolo enorme” sostiene Rosa Montero e del resto non smette di ricordarci che noi adulti altro non siamo se non il bambino che siamo stati. Gli scrittori poi! Udite, udite, ripete Rosa nel suo travolgente Il pericolo di essere sana di mente uscito da Ponte alle Grazie nella bella traduzione di Bruno Arpaia (310 pagine, 20 euro): sono una manica di pazzi per i quali quell’ostinato non riuscire ad abbandonare l’infanzia non è che un’aggravante alla condizione impraticabile di diventare una volta tanto “sani di mente”. E porta le prove: 800mila persone si uccidono ogni anno, perché – con una motivazione o con l’altra – proprio non ce la fanno ad accettare la vita adulta, vale a dire perdere i sogni, crescere, invecchiare, deperire, morire. E non basta. “Secondo uno studio svedese” scrive Montero “gli scrittori hanno un 50 per cento in più di probabilità di suicidarsi rispetto alla popolazione in genere”. Perché “la maggior parte degli esseri umani non si fa ossessivamente domande sul senso della vita, né sull’inevitabile mortalità, né sull’assurdità di tutto questo”, ma gli scrittori invece sì, sostiene Montero.
Dopodiché parte con una carrellata di biografie per illustrare adeguatamente il concetto. Sylvia Plath e Virginia Woolf, celebri suicide, guidano la fila. Ma che dire di Salgari? Un padre che si ammazza giovane, la moglie pazza, povero in canna perché gli editori non gli pagavano i diritti intascandosi quasi tutto e lui non riusciva a sfamare i quattro figli. Così il 23 aprile del 1911 decide per un truculento harakiri, ma lo fa da inesperto e in solitudine, mica come Mishima davanti alle telecamere, e muore lentamente e senza l’eroismo di cui riempiva le sue storie. Proust è morto di morte diciamo naturale per l’asma di cui soffriva fin da bambino. In realtà per non aver curato adeguatamente una bronchite in quanto non credeva ai medici. E poi da tempo aveva chiuso fuori il mondo dalla sua esistenza murandosi in una stanza foderata di sughero e riducendo al minimo i rapporti con l’esterno per dedicarsi esclusivamente alla Recherche.
L’elenco degli alcolisti autodistruttivi (soprattutto americani) è sterminato, alcuni incoronati anche dal Nobel. Fra loro Hemingway, per dire, al quale né l’alcol né il premio impedì di spararsi, perché nessun riconoscimento è sufficiente a guarire, sostiene Montero, “la colossale insicurezza” delle personalità creative. Ma le parti più coinvolgenti del libro sono senz’altro quelle in cui l’autrice infila abilmente, nel racconto della vita (e morte) degli altri, ragionamenti e aneddoti personalissimi, dall’infanzia alla vecchiaia incipiente, senza mai perdere un suo particolare ritmo concitato e una spassosa e amara ironia. “Ora, se non ti suicidi, e se hai la fortuna di non morire giovane, allora ti rimane davanti l’orizzonte di una lunga decadenza, di un invecchiamento più o meno prolungato, più o meno crudele, ridicolo e penoso…” con ciò che ne consegue come inevitabile conclusione. Però racconta anche di aver trovato un nuovo amore dopo il compleanno dei settanta… insomma, Montero è una donna che non si tira indietro, celebra la vita quanto e come può, e anche questo è un insegnamento.
Evitando però di farne una bandiera, nel senso che non cerca di consolare nessuno, tanto meno se stessa. Guarda in faccia le cose senza abbellire nulla, cita, riflette, spiega servendosi di un’impressionante documentazione. Non ha formule di sopravvivenza, né attrazione per il suicidio. E però ringrazia di non essere nemmeno lei totalmente sana di mente, visto che scrive. Perché scrivere è il vero salvagente. E lo dice con le parole di Clarice Lispector: “Scrivo come dovessi salvare la vita di qualcuno. Probabilmente la mia stessa vita”.