Carlo De Benedetti avrà novanta anni a novembre. Probabilmente parecchi italiani pensano di avere delle buone ragioni per detestarlo: è stato tante cose, anche un padrone. Ma sa molte cose e le dice con ammirevole franchezza
Spesso sono stati i bambini, grazie all’abitudine scolastica e alla speciale serietà, a lasciare la memoria di momenti cruciali. Bruna Cases aveva nove anni quando, alla fine di ottobre del 1943, con sua madre e due sorelle e altri sette fuggiaschi, varcò clandestinamente il confine con la Svizzera. “Vedemmo una garitta che era proprio davanti al buco della rete, fortunatamente la sentinella non c’era. A uno a uno, silenziosamente, passammo attraverso il buco della rete. Che emozione! Finalmente eravamo in terra libera, in Svizzera”. Tre del gruppo vennero rimandati indietro, per finire ad Auschwitz. Nel gennaio 2022 Bruna Cases è tornata a Stabio, alla ramina, la rete ormai arrugginita, con suo marito, Giordano D’Urbino, che aveva vissuto, dodicenne, la stessa esperienza. C’era la pandemia, ma era ancora l’anteguerra. Le hanno chiesto: “E il mondo di oggi?”. “Vedo gli immigrati, che arrivano in mezzo a tanti pericoli, come ci siamo passati noi… Purtroppo il mondo va così”. La bambina aveva scritto tutto, dappertutto: “Scappavamo, e io non volevo dimenticarmi niente”. Il suo diario disegnato, su un quadernetto di scuola, in una bellissima grafia, è stato riprodotto anastaticamente da un’edizione ticinese, Abendstern, e dal Corriere della Sera in uno speciale del Giorno della memoria 2021. E’ diventato un libro per ragazzi, con Federica Seneghini, “Sulle ali della speranza” (Piemme). In Svizzera era già riparato un fratello maggiore di Bruna, Cesare (1920-2005), che è stato un grande studioso, germanista, critico, traduttore, “testimone secondario” e militante di poche illusioni.
Quest’anno la Treccani, che è fra le superstiti istituzioni nostre solenni ma rispettabili, ha pubblicato il “Diario di un ragazzino rifugiato. 1943-1945”. E’ uno spesso volume rilegato, e riproduce tal quale, fotograficamente, il diario manoscritto del ragazzino, che all’inizio ha anche lui nove anni, e le altre carte che lo accompagnarono: fotografie, disegni, cartoline, lettere, biglietti ferroviari, pubblicità, cartine geografiche. La madre del ragazzino, Pierina, è di origine francese, cattolica, ha lavorato come impiegata, il padre, Rodolfo, ingegnere, titolare di una fabbrica a Torino, è piemontese ed ebreo. Una famiglia borghese, agiata. Custodito dal fratello del ragazzino, Franco, maggiore di un paio d’anni, questo deposito di ricordi era riemerso poco più di un anno fa, nel pieno di una guerra nel cuore dell’Europa, alla vigilia di una guerra in medio oriente.
Con l’aria che tira al nord dopo l’8 settembre, la famiglia deve scappare dall’Italia. Lo fa all’improvviso all’inizio di novembre del ’43, attraversando clandestinamente la frontiera. Il ragazzino scrive su un quaderno a righe “di terza”, con una grafia curata, qualche pagina è in bella copia. Appena di là dal buco nella rete, “un caporale svizzero ci arresta. Siamo in Svizzera e siamo arrestati. Ora il papà mi spiega che siamo fuggiti in Svizzera per sfuggire ai tedeschi e ai fascisti”. Non gliel’avevano detto prima, “perché io sono un po’ chiacchierone”.
C’è la trafila, verbali, visita medica – ricerca di pidocchi – separazione, dormitorio sulla paglia, trasferimento a Lugano, in un albergo per internati, sorvegliati “come in prigione, ma con certi piumini…”. Impara a calcolare il prezzo delle cose al cambio in franchi, bisogna risparmiare. Si ammala, la mamma pranza con lui in camera col supplemento di un franco, la febbre scende e il ragazzino stipula un patto: “La mamma scenderà a mangiare, e il franco lo prendo io”. E’ l’accumulazione originaria, ma a scopi benefici: “Incomincio così a farmi un bel piccolo capitale che mi verrà assai utile quando vorrò fare dei regali”. Alla mamma “una scatola di sigarette Laurens, acquistate con i miei fondi”. Il tono ricorda, com’è inevitabile per la sua e altre generazioni successive, quello del libro Cuore. A dicembre sono liberati dall’internamento, e vanno liberi a Lucerna, in una pensione accogliente. Amici affettuosi li ospitano a Natale. A Capodanno “so già girare Lucerna”. Franco compie undici anni. Studiano francese e tedesco. La mamma sovrintende alla scrittura, e le lettere fortunose della nonna Emilia dall’Italia sono il grande evento. “Carissimo, è proprio vero che senti la mancanza della tua nonna? Sapessi quanto io sento la tua, e com’è triste questo soggiorno senza la cara distrazione e il chiasso dei miei nipotini!”
In marzo il padre è informato che “il Sig. Olivetti di Ivrea giunge in questi giorni in Svizzera”, se vorrà incontrarlo. In aprile un biglietto informa la mamma che “a Torino la fabbrica lavora… alcuni operai potranno essere inviati in Germania”. Il ragazzino conserva un biglietto di cinema, davano “Bambi”. Altri fuggiaschi arrivano, la stessa polizia non si capacita che abbiano superato passi di montagna impervi e pieni di neve. L’11 maggio del ’44 il ragazzino annota che “gli alleati hanno iniziato le operazioni sul fronte italiano”. Il 5 giugno “Roma liberata!”. Il ragazzino è operato per un’appendicite. “Gli alleati sono sbarcati in Normandia. Il babbo mi ha regalato un bel temperino che tanto desideravo”. D’ora in poi le pagine, cui durante la convalescenza la mamma fa da supplente, segnalano soprattutto le tappe travolgenti dell’avanzata alleata, l’attentato fallito a Hitler, le notizie terribili sugli ebrei di Ungheria, le spettacolose avanzate russe. A luglio il diario finisce.
Il ragazzino di nove anni è Carlo De Benedetti, ne avrà novanta a novembre. Probabilmente parecchi italiani pensano di avere delle buone ragioni per detestarlo, e alcuni ce le hanno davvero. E’ stato tante cose, anche un padrone. Sa molte cose che io non so – e viceversa – le dice con ammirevole franchezza.
Quel suo diario ritrovato è venuto fuori in un momento troppo affollato. O forse no. Bisogna tener care le digressioni, quando la storia procede come un tritacarne.