Meloni a due velocità. Cosa rischia il governo con il passo del gambero

Le svolte della premier sono reali. Ma sono svolte personali, non di squadra. Cos’è la trappola delle due velocità, che impedisce alla destra di allontanare i fantasmi del passato e di farsi trovare pronta alla sfida del trumpismo

La cornice è solida, e lo abbiamo detto, ma dentro alla cornice c’è un disegno, e quel disegno, di giorno in giorno, tende a scolorirsi, a sbiadirsi, come nella famosa foto di “Ritorno al futuro”. La cornice del governo è solida, e lo sappiamo, ed è una cornice che permette all’Italia di essere forte, attrattiva, credibile, persino più solida rispetto a molti partner europei. Ma dentro alla cornice del governo Meloni, due anni dopo la nascita dell’esecutivo, si intuiscono con sempre più forza due velocità diverse, che spiegano bene un fenomeno che molti osservatori hanno iniziato a registrare. Ci sono due Meloni, in giro per l’Europa. Una Meloni è quella che si trova a suo agio quando esce fuori dall’Italia, quando si confronta con i leader internazionali, quando prova a muovere le sue pedine nelle partite europee, quando prova a triangolare con Ursula von der Leyen, quando riesce a trovare punti di contatto con l’Amministrazione Biden, quando riesce ad affascinare persino alcuni capi di governo progressisti, come Keir Starmer e Olaf Scholz. Un’altra Meloni è quella che quando ritorna dai suoi numerosi viaggi all’estero si ritrova a fare i conti con una realtà complicata da gestire.

Il punto non sono solo gli scandali o i presunti scandali. Non sono solo i capi di gabinetto che saltano come i birilli. Non sono i ministri che fanno fatica ad arrivare a fine giornata. Non sono le riforme che non decollano. Non sono le nomine che non funzionano. Non sono le norme scritte spesso con i piedi. Non sono neanche le faide interne ai partiti, alla maggioranza, alla coalizione. Non sono i numerosi esponenti della classe dirigente meloniana che hanno fatto di tutto in questi mesi per mostrarsi non all’altezza, spifferando in giro notizie coperte dal segreto, rivendicando i busti del Duce nel proprio soggiorno, evocando rischi di sostituzione etnica, mettendo in mano un ministero alla propria amante. E non sono nemmeno i numerosi nemici che di giorno in giorno si presentano con sempre maggiore frequenza di fronte all’uscio del governo Meloni – iscritti a Magistratura democratica, magistrati della Corte dei conti, vescovi della Conferenza episcopale, sindacati dei lavoratori, universo dei balneari, mondo dei distributori, un ampio fronte dei diplomatici che ancora non ha digerito la scelta fatta dalla premier di nominare il capo dei servizi come sherpa del G7.

I fatti che abbiamo appena descritto, naturalmente, sono reali, ma non sono la causa dei problemi. Sono semmai l’effetto di un guaio più grande e concreto, che riguarda un tema cruciale della pazza stagione del governo Meloni. Non è il passo dell’oca il dramma del melonismo, se così si può dire, ma è il passo del gambero, ed è quell’impressione costante che a fronte di un passo in avanti, fatto dalla premier, ci siano alcuni passi indietro che fanno tornare la presidente del Consiglio spesso al punto di partenza. E la ragione di questo fenomeno, che è la causa degli effetti che abbiamo descritto, è che nei primi due anni di governo è stato possibile registrare una trasformazione di Giorgia Meloni in quanto leader mentre lo stesso non si può dire per tutto ciò che ruota attorno all’universo meloniano.

Meloni va in una direzione, una direzione spesso ambiziosa, e il suo partito la segue, certo, ma spesso lo fa senza convinzione, senza avere il coraggio di rivendicare le svolte, senza condividerle, mugugnando, cercando di far somigliare il partito che Meloni guida più alla Giorgia di lotta che a quella di governo. Le svolte di Meloni, in questi due anni, ci sono state, ma sono state svolte personali, quasi individuali, che hanno trovato sponda solo in soggetti di governo, che non a caso sono lontani dalla storia di Meloni: Giancarlo Giorgetti al ministero dell’Economia, Raffaele Fitto in Europa, Alfredo Mantovano a Palazzo Chigi. In Europa, per Meloni, la scelta di restare in mezzo tra la destra più estremista e quella di governo è una scelta ed è la scelta di chi prova a giocare il ruolo di ago della bilancia tra due destre che faticano a parlarsi e a capirsi. In Italia, viceversa, la scelta di stare in mezzo tra due modelli di destra, tra una destra che cerca di europeizzarsi e una destra che cerca di rincorrere i suoi fantasmi del passato, rappresenta una scelta diversa, o per meglio dire una non scelta, e non è un caso che gli unici momenti in cui il mondo meloniano, e non solo quello, appare compatto è quando ci si ritrova tutti abbracciati a saltare in groppa al cavallo del vittimismo.

Il problema del melonismo, oggi, non è dunque avere una classe dirigente non all’altezza, o almeno non è solo questo, anche perché è difficile ricordare negli ultimi decenni governi con classi dirigenti totalmente all’altezza. Il problema è quello, per Meloni, di essere ancora, dopo due anni, il megafono di se stessa. Il gioco finora ha funzionato, i sondaggi sono ancora favorevoli, le elezioni regionali potrebbero mostrare che il consenso della premier è ancora forte, e anche nell’attività di governo si indovina una differenza abissale tra i dossier che passano dalle mani della presidente del Consiglio e quelli che passano dalle mani dei suoi ministri.

Ma ciò che è lecito chiedersi, anche da parte di chi ha osservato con curiosità e interesse le evoluzioni del governo Meloni, è quando Meloni capirà che essere circondata da una classe dirigente fedele ma incapace di incarnare le svolte del melonismo è il modo migliore per accelerare la fase “ritorno al futuro”: cornice solida, ma immagine che si perde e volti che si dissolvono. I primi due anni di Meloni sono stati un concentrato di necessario: anti europeismo respinto, prudenza sui conti, buon posizionamento in politica estera. Ciò che è necessario, però, non è sempre sufficiente. E in attesa di capire se l’Italia dovrà fare i conti con una deriva trumpiana, la sfida di Meloni oggi è capire se a voler cambiare la destra italiana, allontanandola dalla stagione dei fantasmi, delle ossessioni, del vittimismo, è solo lei o anche il suo partito.

  • Claudio Cerasa
    Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e “Ho visto l’uomo nero”, con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.

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