Perché amare l’ultimo film di Sorrentino

Nel film “Parthenope”, Napoli viene celebrata come l’immagine e l’evocazione della bellezza e dunque della seduzione che torna a essere vera, presente, dura anche da accettare, e non essendo più un tabù torna a essere sdoganata, torna a essere amata

Chi scrive deve confessare un peccato: Paolo Sorrentino, l’immenso, il grandissimo, l’iconico, l’incensato, non è la nostra cup of tea, e spesso è capitato, come forse a qualcuno di voi, di non ritrovarsi esattamente a proprio agio in alcuni panegirici riservatigli dai giornalisti amici. Chi scrive, che in ogni caso per dovere di cronaca non si è perso un solo film di Sorrentino, anche solo per poterne parlare male, si è presentato con questo spirito malinconico e spaesato di fronte all’ultimo girato, Parthenope, e dopo pochi istanti quella che nelle premesse poteva essere una nuova fonte di disorientamento, con i conseguenti e prevedibili applausi registrati, bravo maestro, che capolavoro maestro, che meraviglia maestro, è diventata invece la finestra su una scelta inaspettata, rara, sorprendente, coraggiosa, al centro della quale non vi è, come si è ascoltato nel corifeo, la celebrazione di Napoli, ma vi è la celebrazione di una sineddoche di Napoli, direbbero gli osservatori colti, ovvero una parte per il tutto.

E dunque Napoli viene celebrata non in quanto Napoli, jamm’ bell’, ma come quello che rappresenta, come l’immagine e l’evocazione della bellezza e dunque della seduzione. La scelta di puntare tutto su una gemella di Napoli, sulla bellezza di Parthenope, ovvero Celeste Dalla Porta, sul suo corpo, sulle sue forme, sul suo fascino, coincide con una scelta di fondo non comune nel cinema contemporaneo e che per questo merita di essere valorizzata: una ribellione ferma e sincera contro una dittatura dell’algoritmo che, tendendo ad assecondare ogni nuova sfumatura di politicamente corretto, da tempo ha trasformato l’arte della seduzione in un tabù da rimuovere, in un peccato da combattere, in una forma embrionale di violenza potenziale.

La seduzione, invece, con Parthenope torna a essere il contrario del virtuale, vera, presente, dura anche da accettare, e non essendo più un tabù torna a essere sdoganata, torna a essere amata, torna a essere celebrata, ed esce fuori dai binari della paura e della rigidità notarile imposta dagli eccessi provocati anche dalla cultura del #MeToo. E in alcune scene, Sorrentino sembra quasi voler fare un passo in più e sembra quasi voler invitare a ritrovare noi stessi e a non aver paura delle conseguenze della bellezza e della seduzione. La bellezza e dunque la seduzione possono farti perdere la testa. Possono uccidere. Possono spaventare. Possono fare miracoli. Ti possono sfigurare. Ti possono disorientare. Ti possono isolare. Ti possono far pentire, Ma anche quando può farti paura, la seduzione va vista per quella che è: un’arte da preservare, da coccolare, da tenere lontana da chi cerca di trasformarla in un peccato o in un reato fino a prova contraria.

“Quell’uomo è il demonio”, dice a un certo punto Silvio Orlando alla protagonista, Parthenope, reduce da un’esperienza in cui la sua bellezza ha generato un’esperienza al limite dell’oscenità. “No, è solo un seduttore”, risponde lei. La difesa della seduzione, con il doppio volto di Parthenope, “Io mi chiamo Parthenope e non mi vergogno mai”, dalle grinfie del politicamente corretto è dunque il vero filo conduttore del film di Sorrentino e il messaggio di fondo, più eroico che erotico visti i tempi che corrono, è indirizzato anche a chi cerca di trasformare buone cause in terribili cacce alle streghe. “Andiamoci piano con i giudizi con l’accetta”, dice il maestro di Parthenope, “perché poi qualcuno prende l’accetta e ce la scaglia in testa”.

Sorrentino, con malinconia, conclude il suo film dicendo che “è impossibile essere felici nel posto più bello del mondo”. E lo fa con il tono di chi forse vuole dire qualcosa di più: riappropriamoci dell’arte della seduzione, della cosa più bella del mondo, smettiamo di averne il terrore, smettiamo di demonizzare il rito del corteggiamento, e allo stesso tempo smettiamo anche di demonizzare l’erotismo, il sesso, temi che lentamente tornano a essere nuovamente sdoganati, come già in “Poor Things” con Emma Stone, e torniamo a considerare i seduttori non come dei mostri fino a prova contraria ma come un patrimonio dell’umanità, proprio come Parthenope.

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  • Claudio Cerasa
    Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e “Ho visto l’uomo nero”, con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.

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