La distopia reale del “follemente corretto”, l’Italia e gli Usa. Parla Ricolfi

“La forza del follemente corretto sta nel suo potere intimidatorio, che a sua volta è saldamente radicato nei social. Credo che né le imprese, né il mondo della cultura e quello dell’informazione abbiano la forza di sottrarsi al ricatto”, dice il politogo in libreria con il suo nuovo saggio

Un mondo alla rovescia, dove l’attenzione (o l’ossessione) rivolta a un linguaggio e a un agire che dovrebbero proteggere e includere in realtà esclude, finendo per restringere la libertà di espressione e per generare fratture sociali, fino al punto di favorire l’emergere di una nuova élite di guardiani del politicamente corretto. E’ la realtà quasi distopica descritta dal sociologo e politologo Luca Ricolfi in “Follemente corretto-l’inclusione che esclude e l’ascesa della nuova élite” (ed.La nave di Teseo), in libreria dal 22 ottobre.

Ma da questo incubo del “follemente corretto” come ossessione e prigione lessicale che si trasforma in deriva sociale e politica, chiediamo all’autore, come si esce? “Che io sappia”, dice Ricolfi, “non esiste alcun modo sicuro per uscirne, almeno finché esisteranno i social. La forza del follemente corretto sta nel suo potere intimidatorio, che a sua volta è saldamente radicato nei social. Credo che né le imprese né il mondo della cultura né tantomeno quello dell’informazione abbiano la forza di sottrarsi al ricatto. Forse, quello in cui possiamo sperare è che, alla fine, il follemente corretto si esaurisca da sé, come una moda superata. Ma questo non è probabile, perché il follemente corretto, grazie al cosiddetto ‘virtue signalling’, è un formidabile amplificatore dell’autostima. E alla gente, non solo ai politici, sentirsi migliore piace da matti: il virtue signalling (esibire la propria virtù) non è altro che una forma di bullismo etico”. Tutto ha avuto origine nel mondo anglosassone, perché? “Io direi che, più che il mondo anglosassone nel suo insieme, siano stati gli Stati Uniti la vera culla del follemente corretto. Nella società americana, infatti, coesistono tre ingredienti unici, che messi insieme hanno fatto deflagrare il follemente corretto”.

Quali? “Il primo, il più importante, è il fanatismo, o se preferite la capacità di abbracciare una causa in modo convinto, estremo e acritico. Penso ai vari ‘risvegli’ religiosi, ma anche alle cacce alle streghe laiche come quella contro l’alcol negli anni Venti del secolo scorso (proibizionismo) e contro i comunisti negli anni Cinquanta (maccartismo). Il secondo ingrediente è la questione razziale, con il suo antecedente schiavista: una fonte inesauribile di sensi di colpa collettivi, che il follemente corretto ha assurdamente commutato in sensi di colpa individuali. E poi c’è il terzo elemento, che sta emergendo pienamente solo ora, con la questione palestinese: il sospetto che l’America, con le sue guerre e il suo ruolo di gendarme del mondo, si situi dalla parte sbagliata della storia, e anche su questo abbia molte scuse da porgere al resto del mondo. Di qui una pressione infinita a riparare, risarcire, espiare, che il follemente corretto rinnova ogni istante”.




I social network e l’AI, rispetto al follemente corretto, sono solo amplificatori o possono anche essere, potenzialmente, antidoto? “Non vedo alcun modo in cui social e intelligenza artificiale potrebbero limitare il follemente corretto. Semmai vedo il concreto pericolo che l’AI sia usata per generare notizie e immagini fake, di cui i paladini del follemente corretto non esiteranno a giovarsi per screditare, intimidire, ricattare”. Quali responsabilità ha il mondo politico, in Italia, rispetto alla diffusione di un lessico e di un pensiero “follemente corretto”? “Credo che la politica abbia ben poche responsabilità, perché la diffusione del follemente corretto ha altre origini. Le responsabilità maggiori stanno nel mondo dell’economia (grandi imprese), dei media, della cultura, dell’arte, che si sono lasciati condizionare dagli attivisti e dalle varie lobby che usano internet per instaurare un clima di intimidazione e di autocensura. E poi, naturalmente, ci sono i singoli, quelli che nel mio libro ho chiamato i vigilantes, singoli utenti che quotidianamente esternano indignazione in rete, propagano odio, delegittimano chi non si adegua al verbo del follemente corretto”. Che conseguenze può avere la presenza di questo ingombrante elemento – la mentalità “follemente corretta” – sulle elezioni americane? “Le può decidere. Sono molti gli osservatori che ritengono che, già nel 2016, Trump abbia vinto anche per l’insofferenza di una parte dell’elettorato per le follie woke. Oggi la storia potrebbe ripetersi, anche perché Harris non ha raccolto l’appello di una parte del femminismo statunitense a prendere le distanze dall’utero in affitto e dai cambi di sesso dei minori. La realtà è che, sul piano elettorale, l’adesione al follemente corretto è un handicap autoinflitto: possibile che, a sinistra, non lo abbiamo ancora capito?”.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l’Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l’hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E’ nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.

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