Sciascia che non si aspettava nulla di buono da una Commissione antimafia

Una Commissione che non è una corte ma si comporta un po’ come se lo fosse, e che può generare cortocircuiti e conflitti d’interesse di ogni sorta. A margine del caso Scarpinato-Natoli

La tentazione di concordare le domande e le risposte di un’audizione presso la Commissione antimafia non è una novità. A rigore, se ne parlava prima ancora che questo strano organo di giurisdizione parallela cominciasse a funzionare e soprattutto a malfunzionare. Cito a riprova l’estratto di un’intercettazione che risale al 1963, non tra Scarpinato e Natoli ma tra due mafiosi, uno vecchio e uno più giovane. È quest’ultimo a parlare: “Questa è poi una cosa nuova… La Commissione, dico: chi sa come si regola, chi sa quello che domanda… Il carabiniere, il giudice, chiedono di un certo fatto, di una certa persona: se sono stato in mezzo al fatto, se ho rapporti col tizio e col filano, e dove stavo quella sera, a quell’ora… E uno le risposte se le prepara prima, ad ogni botta ha pronta la risposta… Ma la Commissione, a quanto capisco, può domandare quello che vuole: e bisogna avere la mente pronta, i nervi sereni…”. L’ufficiale di polizia giudiziaria che ha intercettato i due mafiosi si chiama Leonardo Sciascia, e il fascicolo in cui ha trascritto la conversazione porta il titolo Filologia. Sciascia non si aspettava nulla di buono da una Commissione che non è una corte ma si comporta un po’ come se lo fosse, e che può generare cortocircuiti e conflitti d’interesse di ogni sorta. Proprio al raccontino Filologia, e all’inutilità della Commissione antimafia, si riferiva quella sua frase con cui da anni, rovesciandone il senso, si riempiono la bocca gli amici di Scarpinato: “Una classe dirigente non può giudicare sé stessa”.

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