Yuri Shirai: “Il ricordo di mio padre, una vita per il karate”

Intervista alla figlia del maestro Hiroshi Shirai che insegnò il karate contribuendo al successo in Italia di questa arte marziale. “Diceva che accettare il cambiamento fa parte della vita. Non bisogna chiudersi alle novità ma nemmeno perdere le radici”

Nel 1965 venne in Italia per restarci sei mesi. Invece sono stati quasi sessant’anni, fino all’addio nella chiesa di Sant’Andrea a Milano dove un migliaio di persone ha salutato il 10 ottobre scorso il maestro Hiroshi Shirai, cintura nera decimo dan, tra i massimi esponenti del karate in Italia e nel mondo. Grazie a lui quest’arte marziale, che al suo arrivo contava sparuti pionieri nel Lazio e in Toscana, si diffuse con numeri imponenti, e piaccia o meno si sviluppò anche nella dimensione sportiva. L’aggettivo “iconico”, se l’uso non lo avesse involgarito, si accompagnerebbe senza esagerare al nome di Shirai, che attraverso il karate contribuì anche a stimolare l’interesse per la cultura giapponese.

Nata a Milano, la figlia primogenita Yuri ha studiato con il padre come la sorella Yumi e il fratello Yoshihiro, ma è l’unica dei tre che si è completamente dedicata alla “via”, insegnando karate assieme al marito Silvio Campari, allenatore della nazionale italiana di kumite (combattimento).

Chi fu il maestro Shirai?

Un uomo che viveva in pienezza tutto ciò che faceva, anche quando si trattava dei divertimenti. Che viaggiasse, cucinasse o andasse a pesca vi partecipava al cento per cento, con un senso di attenzione coltivato sin nei piccoli particolari. Se staccava la carta da un rotolo di Scottex rispettava la linea dello strappo; quando riponeva le scarpe le allineava l’una accanto all’altra.

Generazioni di praticanti hanno tramandato aneddoti sul suo rigore. Era così severo con i figli?

Quando avevo cinque anni mi portò in palestra e mi affidò a un istruttore, ma dopo poco tempo dissi che mi annoiavo e accettò che interrompessi. Ricominciai l’anno seguente assieme a mia sorella. Ci dava lezioni lui stesso nel salone di casa. Spostavamo i mobili e ci si allenava. Era faticoso e qualche lacrima l’abbiamo versata, pian piano però capivamo come superare i nostri limiti e attraverso il corpo rafforzavamo lo spirito. La costanza nella pratica non fu più un dovere, ma diventò un bisogno naturale.

Insegnò il karate anche a suo fratello?

Separatamente, perché era più piccolo. Praticava con lui ogni mattina prima che andasse a scuola.

Cos’era il karate per suo padre?

Non gliel’ho mai chiesto, ma mi ha infuso la certezza che sia un “Dō”, ossia una via per migliorare. Non solo un insieme di tecniche ma di valori che vigono anche fuori della palestra: il rispetto per sé e per gli altri, il controllo delle emozioni, il senso della disciplina e un rapporto con il mondo che non si basa sulla mera ottica di vincere o perdere. È ciò che tento di trasmettere ai bambini che vengono ai miei corsi.

Qual è la differenza tra la didattica italiana e giapponese?

La cultura italiana spiega da subito il perché delle cose, come faceva mia mamma o i genitori ai figli che mi portano in palestra. Il maestro Shirai invece riteneva che si comprende attraverso la pratica. Più pratichi, più comprendi.

Quale fu il suo impatto con il Giappone?

Papà mi ci portò la prima volta a undici anni. I suoi genitori non c’erano più ma aveva due sorelle con rispettive famiglie. Mi selezionò dieci frasi in giapponese da memorizzare, ma non mi entravano in testa. Ricordo di averle ripetute per tutto il volo Milano-Tokyo continuando a sbagliare, però una volta arrivata le pronunciai perfettamente. Le tengo ancora a mente.

Le parlò della guerra? Quando Nagasaki fu colpita dalla bomba atomica lui aveva otto anni. Cosa rammentava?

Il segno fu talmente profondo che preferiva non parlarne, anche quando glielo chiedevamo per ragioni scolastiche. Viveva con la famiglia a Sasebo, un paese di pescatori vicino a Nagasaki, e quando cadde la bomba stava facendo un bagno a mare. Diceva di aver visto e sentito “qualcosa”, ma non cosa vide e sentì. Raccontava della penuria di cibo, che loro sopportarono meglio perché sua mamma coltivava un campo di riso. E poi non tollerava il buio dentro casa perché gli ricordava la guerra. Fu forse per reazione che amava molto condividere il cibo e preparare per gli ospiti. S’incuriosiva dei piatti che assaggiava quando girava il mondo per tenere seminari. Al ritorno li sperimentava invitando tutti a cena dopo l’allenamento.

Praticava ancora?

Ogni mattina appena sveglio. Persino negli ultimi tempi, costretto in carrozzina o a letto, eseguiva gli esercizi che poteva. “Il giorno che non lo farò più”, disse, “è perché sarò morto”. Così è stato.

Cosa pensava degli sviluppi del karate, per esempio di vederlo alle penultime Olimpiadi?

Diceva che accettare il cambiamento fa parte della vita. Non bisogna chiudersi alle novità ma nemmeno perdere le radici. E m’invitava a rispettare i praticanti di altri stili di karate perché “se rispetti il loro modo anche il nostro sarà rispettato”.

Era contento che lei insegnasse?

Non mi ha mai chiesto di farlo, neanche quando avrei voluto un aiuto. Non ho mai lavorato nella sua palestra, ho aperto il dojo con le mie forze. Solo dopo ho capito che mi aveva fatto un dono: la libertà di scegliere. Con questo spirito mi sono candidata alla presidenza della Fikta, l’organizzazione che aveva creato.

C’è un’immagine che condensa Hiroshi Shirai?

Come maestro di karate, la sua potenza si dispiegava nel kata Sochin e la sua armonia profonda nel kata Hangetsu. Come uomo, mi commuove un ricordo degli ultimi tempi. Chiedeva: “Come stai?”. Gli rispondevo: “Bene, tu?”. “Io sto sempre bene”, diceva con un sorriso che esprimeva la serenità di chi ha vissuto come ha desiderato.

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