Vila-Matas ci porta nell’hotel di Cortázar e scrive il suo romanzo più audace

“Leggere ‘Montevideo” è un viaggio tra città reali e immaginarie, alla ricerca di misteri letterari e sogni sfuggenti. Un romanzo-labirinto che celebra la vita e la scrittura come illusioni

*Leggere “Montevideo” di Enrique Vila-Matas e ogni trenta pagine precipitarsi su internet a cercare una marea di cose – titoli di libri, storie di poeti sconosciuti, riscontri di plausibilità, biografie di viveur sgangherati dalla vita e salvati dalla letteratura. E tutto per rotolare, alla fine, su Tripadvisor: Hotel Esplendor ex Cervantes, Montevideo, Uruguay. Viste le foto una per una, anche quelle del buffet di colazione. E immaginato tutto l’immaginabile, compreso quello che non si immagina nemmeno di notte, come invece accade a chi, insonne, costruisce intere città col pensiero e finisce per innamorarsene. “Montevideo, città che si ascolta come un verso”, diceva Borges. Ma Parigi? Che c’entra Parigi?

Questo romanzo comincia a Parigi. Ma non è un romanzo. E poi: dire Parigi vuol dire tutto? Se lo domanda, Enrique Vila-Matas. E aggiunge, a un primo capitolo che si chiama come la capitale francese, altri che si intitolano “Cascais”, “Montevideo”, “Reykjavik” e “Bogotà”, per finire, in chiusura, di nuovo con “Parigi” – esaurita ogni divagazione, come nelle Variazioni Goldberg, si torna all’inizio. Il messaggio è chiaro: Parigi contiene tutto.

L’epicentro della storia, in questo “Montevideo” tradotto da Elena Liverani che Feltrinelli ha appena pubblicato e che è uscito in Spagna due anni fa, è il viaggio di uno scrittore che non scrive e che vuol recarsi fisicamente nel punto esatto in cui il fantastico ha fatto irruzione nella scrittura di Julio Cortázar, il luogo in cui è ambientato il racconto “La porta condannata”: camera 205 dell’Hotel Cervantes. Così ci va, sperando di trovarci l’armadio che occulta la famosa porta misteriosa che comunica con la stanza adiacente, come nel racconto. Prima e dopo questo fatto, c’è tutto il resto, il mondo di un insonne che anziché contare le pecore conta i saggi che non scriverà, misteri lynchiani, logge massoniche letterarie, Tabucchi e Walser, la paranoia Cortázar e l’acribia negligente di Vila-Matas, romanziere-filosofo col senso dell’umorismo e della letteratura come Grande Gioco, grande impostura, grande e unica speranza di trovare una via d’uscita. Monarca della narrazione inattendibile, grande illusionista e demiurgo, Alice-Enrique dentro lo specchio di mondi letterari che si moltiplicano, Vila-Matas ci dice che se la realtà è più incredibile dell’immaginazione è solo perché tutto è immaginazione. E che il visibile è solo “il residuo dell’invisibile”. Leggendolo si gode dell’essere ingannati e scoperchiati, ci si ritrova senza baricentro a vagare negli ambulacri del verosimile procedendo a tastoni dentro un racconto che ha senso solo rinunciando al senso del mondo, in favore di qualcosa di più ampio: lo spazio del possibile e di un immaginario ancora non immaginato. In ogni romanzo di Vila-Matas che passa da Parigi c’è sempre uno scrittore che ci va per scrivere e poi non scrive, e quanto meno scrive quanto più tutto cospira perché lui si dica scrittore. Ma Parigi è sempre sfavorevole all’impegno letterario, severa, impossibile, fastidiosa – “no moon in Paris” – e l’io che dice io, il meta Vila-Matas, diciamo, ci ricama sopra (ci ricama sempre) e, di sconfitta in sconfitta, continua a perdere terreno, rincorrendo un fantasma fatto di scrittura e di letteratura che attrae altri fantasmi.

Con “Montevideo” – grande assolo, fuoco d’artificio, salto di specie letteraria – siamo di fronte a un Vila-Matas al cubo, pertanto chi lo odia ne confermerà le ragioni, ma chi lo ama può stappare una bottiglia, perché il romanzo è il suo più audace e ci scodella un autore in forma strepitosa, a cui essere grati per il fatto che ci consente ancora di smarrirci nel labirinto della vita e della letteratura, anzi, della vitaletteratura, in un instancabile spalancarsi di botole e passaggi segreti. Questo è leggerlo, e questa forse è la scrittura per Vila-Matas: sgattaiolare di frodo lungo i margini bianchi di mille altri romanzi, cercando di farla franca (ma perchè?), di uscirne vivo (ma da cosa?), affrontando col machete foreste di simboli e ridendo fino alle lacrime, rincorso dal senso del ridicolo di ciò che si crede essenziale, letteratura compresa.

Ma cosa c’è, al di là di una porta? Un’intera Reykjavik? Il mistero? Ancora Parigi? Horror o poesia?

Un cliente dell’hotel ex Cervantes lo recensisce così: “Struttura in stato di abbandono, le foto su internet sono fuorvianti, pulizia della stanza pessima, con capelli in bagno e mobili rovinati, non lo consiglierei neanche al mio peggior nemico”.

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