I giovani che comprano auto sono sempre meno. Ma non è solo colpa della Generazione Z se il mercato è in crisi

Il crollo dell’automotive non è causato solo dallo scarso interesse delle nuove generazioni. La congiuntura è girata prima del previsto. L’inflazione ha gonfiato i prezzi e sgonfiato il potere d’acquisto. E l’incertezza mondiale, le guerre, l’instabilità permanente hanno reso prudente anche chi ha un buon gruzzolo su cui vegliare

A Parigi (e dove se no?) va in mostra la vettura del futuro. L’ha progettata per la Peugeot, vessillo del gruppo Stellantis, il direttore del design Matthias Hossann, ma sembra una Batmobile uscita dalla matita di Pininfarina. Forse è una doppia furbata, un omaggio al principe dei carrozzieri e un richiamo al cinema per attirare il pubblico più giovane, quello che le auto non le ama e non le compra nemmeno. Cinema e motori sono sempre andati a braccetto. I baby boomer opulenti svenivano per la Duetto Alfa Romeo che il padre regala al giovane Dustin Hoffman appena diplomato. In italiano il film si chiamava chissà perché “Il laureato” anche se Ben, il protagonista, si era appena diplomato e non voleva nemmeno andare all’università (il titolo originale infatti è “The Graduate”). I baby boomer di destra si fiondavano sulla Porsche 911. I gruppettari s’accalcavano sulla due cavalli Citroën. Quelli come me amavano la 500 decappottabile. Per tutti i figli del Dopoguerra, di qualsiasi ceto e militanza politica, la patente era un rito d’iniziazione e il rombo del motore uno squillo di libertà. I tempi cambiano, si dice, ma è quasi incredibile capire quanto siano cambiati. Il bello è che non lo ha capito nemmeno chi costruisce automobili e adesso ne paga il fio. I due colossi europei sono i più colpiti: il gruppo Volkswagen, troppo legato alla Cina, e Stellantis, un arcipelago di quattordici marchi spesso in competizione tra loro, che ha cannato i due mercati portati in dote dalla Fiat Chrysler: quello italiano, stagnante ma ricco, e quello nordamericano, ancor più ricco e in piena espansione.

La crisi dell’auto non è colpa dei giovani, o almeno non è solo colpa loro. La congiuntura è girata prima del previsto. L’inflazione ha gonfiato i prezzi e sgonfiato il potere d’acquisto. L’incertezza mondiale, le guerre, l’instabilità permanente hanno reso prudente anche chi ha un buon gruzzolo su cui vegliare. Tutto ciò ha raffreddato la domanda proprio nel momento in cui maturava “la più grande trasformazione strutturale in oltre un secolo”, come scrive Mario Draghi. Il suo rapporto ne elenca in modo puntiglioso tutte le diverse componenti e riassume in cinque capitoli le novità più dirompenti. Un piccolo riassunto, un bignamino, può aiutarci a capire.

1. Innanzitutto bisogna fare i conti con lo spostamento della domanda verso i mercati terzi, in linea con la nuova geografia economica mondiale e la crescita dei redditi pro capite nelle economie emergenti. La domanda di automobili è aumentata in varie regioni del mondo, in particolare in Cina, ma è meno dinamica nell’Ue, dove il mercato è più maturo e le alternative di trasporto pubblico sono generalmente più sviluppate.

2. La rivoluzione elettrica. Nel 2023 i veicoli a trazione totalmente o parzialmente elettrica rappresentavano il 22,3 per cento delle immatricolazioni di nuove autovetture in Europa. La transizione comporta un cambiamento di vasta portata nella tecnologia, nei processi di produzione, nella domanda di competenze e negli input necessari alle case automobilistiche e alle reti di fornitori. E’ necessario un importante riorientamento dell’industria, compresa la riqualificazione dei lavoratori e reti di fornitori più snelle, nonché lo sviluppo di infrastrutture di ricarica.

3. La catena del valore digitale: mentre l’industria automobilistica è stata tradizionalmente meccanica, quindi basata sullo hardware, il valore dei veicoli è sempre più localizzato nel software. Le stime suggeriscono che l’elettronica e il software potrebbero rappresentare fino al 50 per cento del valore di un’automobile nel 2030. L’intelligenza artificiale (IA) e le tecnologie digitali cambieranno la mobilità basata sull’automobile nei settori dei veicoli connessi, dei controlli avanzati per il supporto alla guida e dei veicoli autonomi.

4. La nuova mobilità. Ciò include l’emergere di nuovi modelli di business, come il car sharing, nuovi modelli di finanziamento e servizi energetici. La disponibilità di infrastrutture di ricarica e rifornimento per le autovetture a basse emissioni è una condizione essenziale per la diffusione e lo sviluppo di un ampio mercato interno dei veicoli elettrici

5. L’economia circolare. Il recupero e il riciclaggio dei materiali a fine vita riguardano in particolare le batterie, ma si estendono anche ad altri componenti (carrozzerie, elettronica e plastica).

Il primo fattore è frutto della storia. Si torna indietro solo con una catastrofe provocata dall’uomo o dalla natura matrigna, perché il sud del mondo insegue, ma non si ferma. Il terzo è la propaggine della rivoluzione tecnologica e industriale che ha avuto il suo impatto più dirompente e pervasivo con i personal computer e internet. Il quarto e il quinto dipendono in gran parte da fattori demografici, non solo economici: grandi masse umane si accalcano nelle aree metropolitane rese spesso invivibili; l’aumento della popolazione nei paesi in via di sviluppo da un lato e l’invecchiamento in quelli occidentali dall’altro, invitano a puntare sul trasporto collettivo; la produzione nel mondo più sviluppato di una quantità non solo di rifiuti, ma di beni di consumo che non può andare al macero né giacere in montagne purulente nelle periferie delle megalopoli africane dove noi opulenti la scarichiamo, rende inevitabile il riciclo. L’irrompere delle auto elettriche dipende dall’incrocio di tutti gli altri fattori più uno al quale il rapporto Draghi non ha fatto abbastanza attenzione: la cultura della nuova generazione, quella chiamata Zeta, che raggruppa i nati dopo il 1995-97. E’ una minoranza, certo, ma è quella che avrà in mano il mondo intero nel prossimo decennio. Chi può ignorarla? Chi se la sente di sfidare i suoi paradigmi intellettuali, le sue convinzioni, i suoi valori di fondo?

Tutto questo apparente divagare ci porta al dunque. La Generazione Z non vuole le automobili. E’ solo l’accecante bagliore di un’ideologia in mano a una manipolo rumoroso e irresponsabile? O è l’inarrestabile spirito dei tempi? Non tutti gli spiriti sono fasti come sappiamo, ma guai a ignorarli, a cominciare da quelli nefasti. L’automobile resta ancora il veicolo preferito dai Millennial (i nati dal 1981 al 1995) mentre a mostrare la maggiore disaffezione sono gli Z venuti al mondo a cavallo del nuovo secolo. Nel Regno Unito la percentuale di adolescenti in grado di guidare si è quasi dimezzata, passando dal 41 al 21 per cento negli ultimi vent’anni. Segugio.it, il portale del mercato italiano che confronta vari servizi, ha messo in evidenza che mentre tra gli over 50 la percentuale di chi ha ottenuto la patente a 18 anni è del 72 per cento, tra i giovani under 25 la quota scende al 46. Una divario che si allarga ulteriormente in alcune grandi città del nord come, ad esempio, Milano e Torino, dove la percentuale di under 25 che prende la patente allo scoccare della maggiore età scende al 35 e 39 per cento. Se si considerano tutti i paesi dell’Unione europea, ci sono più automobili che mai. Eppure, anche prima che i lockdown per il Covid-19 svuotassero le strade, la distanza media percorsa in ciascun paese si era ridotta di oltre un decimo dall’inizio del millennio. Anche in Germania, dove il motore a combustione termica è uno status symbol, gli automobilisti diminuiscono. Secondo una ricerca di facile.it il numero di giovani neopatentati italiani si riduce anno dopo anno. E la patente viene conseguita sempre più tardi, in media oltre i 22 anni di età. Tra il 2012 ed il 2022 c’è stato un vero crollo pari al 33 per cento e le auto intestate agli under 25 sono scese sotto le seicentomila, in controtendenza rispetto alla crescita del parco auto circolante nello stesso periodo che è stata dell’8 per cento.

Anche il più visionario dei cavalieri solitari, l’imprenditore che trasforma l’invenzione di uno scienziato in una innovazione dirompente, quello che scommette su un prodotto anche quando per tutti gli altri non ha mercato (non ancora), ebbene persino lui va incontro a un esito catastrofico se non interpreta la domanda, i bisogni, le passioni, le idiosincrasie dei clienti, a cominciare da quelli potenziali. Tutto parte dal mercato e finisce nel mercato, il quale è composto da una miriade di persone, di donne e uomini che pensano, amano, odiano, vivono. Lo stesso Elon Musk che ha indossato il berretto Maga un po’ per celia un po’ per non morir, prima di diventare campione del trumpismo ha cavalcato la tigre ecologica, ha fatto a pezzi il vecchio modello industriale e ha scavato la fossa all’auto con motore endotermico, la stessa alla quale la destra vorrebbe allungare la vita con una respirazione bocca a bocca. Musk ha rischiato grosso. Non è stato lui a costruire per primo la Tesla, l’ha fatta propria liquidando i due inventori e fondatori Martin Eberhard e Marc Tarpenning. Non è una novità, fece così con i suoi soci anche il vecchio Giovanni Agnelli nel 1906. Ma per anni le vetture elettriche, eleganti, minimaliste persino, hanno fatto bella mostra nelle vetrine degli autosaloni e quasi nessuno le comprava. Per sei o sette volte la Tesla ha rischiato di fallire e tra il 2018 e il 2019 è stata salvata grazie anche al sostegno di John Elkann il quale era rimasto vedovo di Sergio Marchionne e stava cercando un buon partito per la Fiat Chrysler.

I cinesi si sono mossi per primi su larga scala e hanno costruito un nuovo modello integrato: terre rare, batterie, auto. Come mai? Perché sono abituati a pensare a lungo termine? Anche, ma soprattutto perché sono partiti da zero. E’ quella che gli economisti dello sviluppo chiamano il vantaggio dell’ultimo arrivato, del quale hanno usufruito alla fine dell’Ottocento la Germania e l’Italia, a metà del Novecento il Giappone. Fino a pochi anni fa, proprio i giapponesi insieme agli americani e una manciata di europei guidati dalla Volkswagen hanno costruito le vetture per la nuova classe media che hanno intasato e intossicato le metropoli. Adesso l’ultima generazione ha cambiato le preferenze anche in Cina. Un potere centrale potente e dispotico le ha assecondate per sopravvivere, anzi per continuare a imperare.

I produttori automobilistici europei vogliono continuare a costruire auto endotermiche, ma per chi le fanno? Per un mercato sempre più vecchio e saturo come quello europeo? Per i paesi in via di sviluppo? Certo non per i mercati in espansione come quello cinese e quello americano dove prevale, soprattutto tra i consumatori affluenti, la domanda di vetture ibride o tutte elettriche. In modi e per ragioni diverse, Volkswagen e Stellantis hanno perso il primo treno. Incomprensione, eccesso di fiducia, dipendenza cinese, costi hanno pesato sul gigante tedesco. Gigantismo, confusione, ritardo tecnologico, sovrapposizione di vetture sulla stessa fascia di mercato tra Peugeot, Citroën, Fiat, Opel hanno rallentato la razionalizzazione di un gruppo ancora privo di una propria identità. Secondo Luca de Meo, che dalla Fiat è passato per la Volkswagen e la sua dependance spagnola Seat e ora guida Renault, mentre i grandi diventavano più grandi, il paradigma dell’auto si è rovesciato. Il mantra dell’Avvocato e di Sergio Marchionne, cioè sopravvive solo chi fa almeno sei milioni di vetture all’anno, non è più vero. Dall’auto di massa si può spremere solo poco, l’auto d’élite o di nicchia ha un valore aggiunto ben superiore. Ma Volkswagen impiega circa 700 mila dipendenti e costruisce quasi 9 milioni di vetture, per Stellantis lavorano 250 mila persone e producono sei milioni di veicoli. Le auto elettriche o di lusso rappresentano meno di un terzo del loro giro d’affari. Che fine farebbe tutto il resto? E’ la domanda alla quale nessuno trova una risposta, nemmeno il rapporto Draghi. Si possono (anzi si devono) mettere sott’accusa per i loro errori Oliver Blume, il big boss di Volkswagen-Porsche, e Carlos Tavares, ma né i sindacalisti né i politici sanno cosa fare.

Una settimana fa, venerdì 11 ottobre a Montecitorio deputati e senatori italiani si sono improvvisati ingegneri, meccanici, piloti. L’unico ad avere una qualche esperienza nel mondo dell’auto è Carlo Calenda, anche se è rimasto legato a quel che la Fiat poteva essere e non è diventata. Il resto è cacofonia, rumori fuori scena. I loro scenari sembravano più fantasiosi persino di quelli del professor Sergio Savaresi, docente al Politecnico di Milano, visionario interprete di quel che pensa e immagina la Generazione Z. La guerra tra motore elettrico o motore a scoppio? Non è questo che cambierà il paradigma del trasporto, sostiene Savaresi. “Fra 30 anni non avremo più auto di proprietà. I nostri nipoti forse nemmeno prenderanno la patente. Avremo più tempo libero, meno inquinamento. Avremo città a misura di pedoni e di biciclette elettriche”. La vera rivoluzione è digitale, sono gli algoritmi che consentono la guida autonoma. “Gireremo su robotaxi che ci verranno a prendere sotto casa e ci porteranno ovunque. Sarà più economico di una corsa in taxi e con rischio di incidenti quasi nullo. L’auto senza guidatore non si distrae, non guida in stato di ebbrezza, non vede solo da una parte come fa l’occhio umano, ha tempi di reazione immediati. Queste macchine non saranno mai ferme nei parcheggi, ma continueranno a muoversi. Eppure in giro ci sarà un decimo delle auto che ci sono oggi”. Affascinante, ma teniamo i piedi per terra. Il robotaxi appena presentato da Musk sembra sia un mezzo imbroglio, circola il video di una Tesla a guida autonoma che si schianta contro un ostacolo che il pilota automatico non aveva visto. Dal 2021 sono stati registrati negli Stati Uniti 467 incidenti che coinvolgono il sistema Autopilot, con 14 morti e 54 feriti. Ben 360 mila veicoli sono stati richiamati per problemi nel sistema. E così via. Il professor Savaresi lo sa, ma siamo solo all’inizio e nessuna rivoluzione è un pranzo di gala.

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