Il filosofo De Kerckhove: “Musk contro la scheda digitale per scoraggiare il voto”

Per il miliardario del tech le elezioni necessitano di carta, conteggio manuale e documento d’identità, senza l’ingombro di computer fin troppo facili da hackerare. L’obiettivo? “Spaventare gli elettori” e dissuaderli dal votare in modo più veloce, secondo il teorico dell’intelligenza cognitiva

Se il mezzo è il messaggio, in questo caso “parafrasando Marshall McLuhan: Trump è il messaggio”. Esordisce così Derrick de Kerckhove, filosofo belga naturalizzato canadese nonché teorico dell’intelligenza connettiva – e di McLuhan considerato l’erede – che il Foglio raggiunge per commentare l’ultima sortita di Elon Musk: “Le elezioni, per essere democratiche, necessitano di schede cartacee, di conteggio manuale e documento d’identità”. Esordisce così, quindi, per chiosare l’estroso ceo di Tesla, Neuralink e SpaceX. Il marziano sbarcato nello stato di Pennsylvania, in sostegno del candidato repubblicano, che dissuade gli elettori dal voto elettronico. Insomma Musk, il miliardario del tech, l’arguto twittarolo. Lui che è il più importante tecnologo al mondo e che però adesso – in abito nero e cappellino canarino – dice che l’ultima cosa che farebbe “è fidarsi di un computer. Troppo facile da hackerare”.

Ed ecco. Non è curioso sia proprio lui a gettare un’ombra sulla scheda digitale? Curioso, certo. Ma non per de Kerckhove. Che, in linea con la lezione del maestro, vede nella dichiarazione di Musk non tanto un monito quanto una strategia. “Un mezzo e un messaggio: quello della provocazione permanente”. De Kerckhove, ci spieghi meglio. “Il tema non è cosa dice Musk, ma come lo dice. Ora, noi sappiamo che il voto digitale è sicuro. Sappiamo che non è il voto in sé il problema del rapporto tra tecnologia e democrazia. Ma quello che a volte dimentichiamo è che Musk, e con lui Trump, possono dire qualsiasi cosa. L’obiettivo, quale che sia il mezzo, è sempre il punto di caduta”. Che sarebbe? Spaventare gli elettori. E, in questo caso, dissuadere dal voto elettronico per dissuadere dal voto tout court. Anche perché è ovvio: il voto digitale è più veloce del voto, arcaico, su carta”. Quello che lei dice attiene a un piano comunicativo: Musk che segue la scia del complotto, Elon che vellica la sfiducia, d’accordo. Eppure l’uomo, sostenitore di Trump, è il più importante tecnologo al mondo. Le sue parole sollecitano una riflessione: davvero la tecnologia è in alcun modo rischiosa per i regimi democratici? “Certo che lo è. Ma non per i motivi espressi da Musk”.

Non per il voto facilmente hackerabile. E allora per cosa? “È pericolosa perché le democrazie s’incardinano sulla parola. E cioè sul discorso dialettico che produce ‘senso’. Al contrario, tutto quello che noi chiamiamo tecnologia è produttore di ‘ordine’, non di senso. Non di significato – attenzione – ma di dati generati da input. Di codici non elaborati e non interpretati. I quali, poi, sono alla base delle polarizzazioni e delle fake news”. In pratica, quindi, è l’uso che della tecnologia fanno Musk e Trump a essere una minaccia per i sistemi democratici. È qui che vuole arrivare? “Esattamente. E tutto questo, aggiungo, è alla base di quella che io chiamo ‘datacrazia’, e cioè del sistema che al voto – sia esso di carta o online – contrappone il dato. È per questo che Musk dissuade l’elettore dalla scheda digitale”… Al bando la datacrazia. E tuttavia sarebbe impensabile eliminare l’espressione digitale, non crede? “Impensabile ma soprattutto impossibile. Piuttosto, dovremmo ricombinare la macchina con un discorso umano. E poi esigere, per quanto riguarda il voto, l’obbligo di competenza”. Fare in modo che non votino i repubblicani? “No e poi no! I repubblicani anti Trump esistono. E sono quelli che agli ami di Musk non abboccano”.

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