Oxford cerca un nuovo chancellor mentre combatte contro i perenni offesi

Nel carnevale di candidature per sostituire Lord Chris Patten, in cui non mancano un corbyniano che vuole abolire gli esami finali, un teologo e astrofisico che si presenta come l’unico “apertamente anti woke”, ci sono due donne rettrici di collegi: Elish Angiolini e Jan Royall

Ci sono vari elefanti nelle stanze di Oxford e, secondo alcuni, si nascondono a vicenda: libertà di parola, difficoltà nella raccolta di fondi, ruolo delle mode politiche. Solo che a dieci giorni dall’inizio della votazione per il nuovo chancellor della prima università del mondo, è inevitabile che ci si interroghi su di loro. Potentissima figura senza salario, cerimoniale e simbolica, alle prese con la concretezza delle campagne di raccolta fondi e con la mistica delle toghe dai ricami d’oro nei vecchi edifici pieni di futuro e innovazione, dal 1224 il rettore è un maschio bianco di immenso privilegio – provateci voi a non essere pagati – che di solito muore in carica dopo una vita spesso spesa a capo del governo. L’unica eccezione è Lord Chris Patten, ottantenne dall’oratoria sontuosa, che dopo 23 anni ha deciso di fare un passo indietro. Abituato a chiudere stagioni, visto che è stato l’ultimo governatore di Hong Kong prima del ritorno alla Cina, oltre che commissario europeo con Romano Prodi, Patten ha aperto la strada alla prima elezione online di un rettore, e sono 250 mila i laureati e i membri o ex membri del personale chiamati a esprimersi dal 28 ottobre fino a quando, a metà novembre, non ci sarà una cinquina e poi un secondo voto.

“La verità è che lui è inarrivabile”, spiega una fonte molto coinvolta in questa campagna elettorale eccentrica e serissima, come tutto ciò che è inglese, con una lista di 38 candidature tra cui moltissime apertamente assurde, con lettere di presentazione esilaranti che sembrano saltate fuori da “La versione di Barney”, e alcune altre molto serie e prevedibili. Fortunatamente manca la più assurda di tutti, quella dell’ex primo ministro del Pakistan, Imran Khan, ex campione di cricket ed ex marito di Jemima Goldsmith, uno che considera Salman Rushdie “blasfemo” e Osama bin Laden “un martire” e che è in carcere dal 2023. E’ stata esclusa per ragioni che non sono state rese note ma che sono facili da immaginare da parte di un comitato che solo recentemente ha rinunciato all’idea di fare un processo di selezione preventivo dei candidati, con “una debita attenzione ai princìpi di pari opportunità e di diversità”.

C’era ancora il governo dei Tory e tutta questa ingegneria politica era stata vista come un cedimento a un politically correct a cui occorre fare attenzione, soprattutto dopo aver dato un’occhiata a quello che hanno fatto alle rivali americane, Harvard in primis, finita sui giornali per tutte le ragioni sbagliate – antisemitismo, una rettrice incapace di dire se inneggiare al genocidio sia ok o non ok, corsi forsennatamente orientati a illustrare il punto di vista delle minoranze, con un massiccio ricorso all’ideologia – e alle prese con un vistoso appannamento del brand. Patten, che se l’è dovuta vedere con le polemiche sulla statua di Cecil Rhodes, mercante di schiavi ma anche donatore generosissimo all’Oriol College, ha preso una posizione chiara sulla questione: gli studenti “dovrebbero pensare di andare a studiare altrove se non sono d’accordo” con i princìpi stessi di un’università di élite, come tutto il sistema d’istruzione britannico, che però negli ultimi anni ha fatto molti sforzi – con successo – per aprire le proprie porte a studenti di altre estrazioni sociali. Se oggi due terzi dei ragazzi vengono dalle scuole statali, un tempo non era così.

Oltre alle statue, uno delle questioni più spesso finite sui giornali riguarda la pratica infestante del no platforming, ossia il non dare alle persone con opinioni diverse la possibilità di parlare. Pochi giorni fa a Cambridge è toccato all’ex ministro dell’Interno Suella Braverman, costretta a cancellare un evento nella sua alma mater per via di un gruppo pro palestinese che ha suggerito ai suoi membri di portare “la propria energia antifascista” per impedirle di parlare: la polizia le ha consigliato di non andare e lei si è consolata scrivendo editoriali sul problema della libertà di parola nelle università britanniche. A Oxford alla filosofa Kathleen Stock è stato impedito di finire il discorso da attivisti trans, ormai sono episodi da mettersi sul curriculum e l’università deve fare il possibile per non finire travolta da questo meccanismo in cui a perdere, alla fine, sono tutti.

“La questione del free speech è fuori controllo sui media, in modo ridicolo, e oscura le cose importanti”, spiega un vecchio osservatore di cose oxoniensi, molto vicino al processo elettorale. E le cose importanti sono soprattutto i finanziamenti, in un momento in cui con la Brexit che toglie studenti e docenti, spesso insieme ai loro finanziamenti dell’Unione europea, le guerre, i costi enormi per gli studenti britannici e la rapida ascesa di alcuni atenei asiatici, i 21.750 giovani e il loro ateneo rischiano di scivolare via dall’ambito primo posto nei ranking mondiali. Un disastro, più lento del previsto ma che richiede una strategia e qualcuno che sappia portarla avanti.

Non è detto che sia un ex politico, come per esempio William Hague, Dominic Grieve o Peter Mandelson, figure solide ma che difficilmente possono essere viste come una ventata di novità. Pare che i dons, gli anziani accademici che controllano il processo di elezione, sarebbero orientati a qualcuno di diverso. Nel carnevale di candidature, in cui non mancano un corbyniano che vuole abolire gli esami finali, un teologo e astrofisico che si presenta come l’unico “apertamente anti woke”, per “incoraggiare le virtù di verità, unità, bellezza e bontà”, ci sono due donne che hanno un’eccellente conoscenza del sistema, essendo entrambe rettrici di collegi. Una è Elish Angiolini, l’avvocatessa italo-scozzese che ha guidato il processo contro la polizia sulla morte di Sarah Everard, ed ex principal di St Hugh’s, mentre l’altra è Jan Royall, partita molto bene ma ora in difficoltà dopo che l’associazione Alumni for Free Speech ha ricordato come qualche anno fa avesse imposto agli studenti di Somerville un test sugli unconscious bias, i pregiudizi inconsapevoli, in cui bisognava avere un risultato del 100 per cento.

Insomma, trovare un modo di navigare le nuove sensibilità, e scalfire la monocultura intellettuale e sociale che per secoli ha dominato Oxford, è cruciale proprio per poter passare ad altro e a gestire le partnership che hanno permesso all’università di diventare quello che è: il posto in cui è stato fatto il vaccino Covid, per esempio. La vera donna più potente di Oxford è stata già eletta nel 2022 ed è la vicecancelliera Irene Treacy – che prende circa 400 mila euro all’anno – neuroscienziata di fama mondiale che ha dovuto già vedersela con numerose proteste di gruppi filopalestinesi che hanno circondato il suo ufficio per non aver voluto tagliare i legami con delle aziende israeliane. Li ha fatti arrestare e si sta dando da fare per “riaffermare l’importanza” della libertà di pensiero, spiegando che “non esiste il diritto di essere scioccato o offeso”, per dire, a meno che non si voglia finire nelle trappole dell’algoritmo. E togliere all’università la sua ragione d’essere, e tutti i soldi che servono per farla brillare forte, per tutti.

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