Contro la giustizia basata “sugli umori popolari”. Gran lezione dei giudici sul caso Serena Mollicone

Il cadavere della ragazza è stato trovato nel 2001 in un boschetto ad Arce in provincia di Frosinone. I giudici hanno assolto in appello i presunti colpevoli tracciando una linea netta tra ciò che si valuta in Tribunale e ciò che accade fuori

Ogni tanto, non molto spesso a dire il vero, capita di leggere una sentenza e poter esclamare: “Questa è musica per le mie orecchie”. È il caso della decisione di secondo grado nel processo per l’omicidio di Serena Mollicone, nel quale gli imputati – già assolti in primo grado – sono stati assolti anche in appello. La sentenza – che può essere letta, per esteso, sulla rivista Giurisprudenza Penale – è, al tempo stesso, un inno all’importanza del principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio e un monito contro la giustizia mediatica. I giudici, dopo aver fatto notare come nell’opinione pubblica si fosse “progressivamente radicata la convinzione della responsabilità degli odierni imputati” (situazione, aggiungiamo noi, comune a tante vicende nelle quali, nel caso di assoluzione, si alza il grido “vergogna”), hanno ricordato che il convincimento del giudice non possa e non debba mai fondarsi “sui sondaggi o sugli umori popolari”.

Citando un articolo di Pasolini del 1974, i giudici tracciano una distinzione netta tra ciò che avviene (o dovrebbe avvenire) in Tribunale e ciò che accade al di fuori (giornali, tv, ecc…). Scrive la Corte: “qui, nelle aule di giustizia, non può albergare la polemica frase (scritta, peraltro, cinquant’anni fa, in un articolo di analisi storico-politica, non giudiziaria) di un noto intellettuale: Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi”. Nelle aule di giustizia non funziona (o, almeno, non dovrebbe funzionare) così.

Il fatto che la responsabilità penale di un imputato debba essere provata “al di là di ogni ragionevole dubbio” (così recita il nostro codice, che ha recepito il cd. principio “B.A.R.D.” beyond any reasonable doubt) è un principio “inattaccabile” per chi è chiamato a giudicare; dimenticarsene o applicarlo in maniera blanda – magari al fine di assecondare aspettative di condanna diffuse nell’opinione pubblica – significa violare un principio cardine del nostro stato di diritto e pronunciare sentenze costruite su “fondamenta instabili”, destinate evidentemente a non reggere a lungo. Questi principi sono ancora più importanti quando, come in questo caso, gli imputati erano stati assolti anche in primo grado: in questo caso, infatti, non basta rivalutare gli atti già acquisiti, ma serve “una forza persuasiva superiore, tale da far venir meno ogni ragionevole dubbio”.

Qualora vi siano lacune e incertezze su alcune delle circostanze sulla base delle quali si ricostruisce una vicenda – i giudici richiamano, a tal proposito, la regola delle cinque W (who, what, when, where, why; chi, che cosa, quando, dove, perché) – l’esito non può che essere una sentenza di assoluzione. Per quanto ciò possa non piacere a chi associa il concetto di “giustizia” all’emissione di una sentenza di condanna, negli stati di diritto funziona così. Naturalmente, non può escludersi – concludono i giudici – “che le prove, invece, ci siano, e che questo Collegio non abbia saputo valorizzarle; questo lo dirà, eventualmente, la Cassazione, magari stabilendo che le incertezze probatorie siano superabili e che i dubbi rappresentati dalle due Corti di merito siano meramente soggettivi, virtuali, immaginari e collocati nel regno sconfinato delle possibilità”. Alcuni, citando Paolo Stoppa (Papa Pio VII) in “Il Marchese Del Grillo”, direbbero: “la giustizia non è di questo mondo, ma dell’altro… È curioso il fatto che, in questa stessa vicenda processuale – in occasione della sentenza di primo grado – gli imputati avevano dovuto evitare tentativi di linciaggio e la Procura si era sentita in dovere di rilasciare un comunicato stampa con il quale “prendeva atto della decisione”, chiariva che “non aveva potuto fare di più” (di più di cosa, esattamente?) e concludeva evidenziando che il “contraddittorio tra le parti evidentemente ha convinto i giudici circa la non colpevolezza degli imputati”.

Ecco, la sentenza della Corte di Appello è forse la miglior risposta a quel comunicato.

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