Sull’aiuto a Israele, Scholz dà una lezione all’Italia meloniana

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore – Tizio: “Non sono antisemita, ho un amico ebreo”. Caio: “Non sono ubriaco, ho un amico astemio”.

Michele Magno

A proposito di amici. Lunga vita agli amici di Israele come Olaf Scholz, che pur avendo tutti i problemi che ha nel proprio paese, crescita al ribasso, produzione industriale al ribasso, consensi a picco, non perde occasione per ricordare, rispetto al medio oriente, chi sono gli aggrediti e chi gli aggressori. L’ultima volta lo ha fatto ieri dando una lezione anche all’Italia meloniana: “Ci sono consegne di armi a Israele e ce ne saranno in futuro. Su questo Israele può fare affidamento”. Ben detto.


Al direttore – Alla fine, il Maestro Marco Ferrigno ha chiuso la porta alle polemiche e sancito la vittoria di Gaetano Pesce, restituendo il suo Pulcinella impalcato e privo di corpo alle profondità di Napoli, da dove era riemerso. La statuina di Ferrigno nel presepe di San Gregorio Armeno non è soltanto la definitiva foto di famiglia per la discussa opera di Pesce, ma rappresenta la forma di appropriazione più rapida e verace, come fosse un bomber del Napoli o l’ultimo premier. Vederlo lì, quel Pulcinella che senza avere più un corpo ne richiama ancora la parte più intima e scandalosa, fa venire voglia di portarselo a casa, di poter conservare da qualche parte quel vestito rigido e colorato che a San Gregorio Armeno sembra anche esteticamente più gentile di quanto non appaia in piazza. Portarselo a casa per avere con sé il lampo di Gaetano Pesce tradotto in presepe napoletano, per ricongiungere l’eruzione urlata del contemporaneo sulla pubblica piazza con l’addomesticamento popolare di quel grido, che in un sol boccone divora il livore moralista, l’inane dibattito sul bello e il brutto, lo scacco stavolta sorprendente dell’invettiva femminista di fronte alla carnevalesca impotenza del maschio, i tentativi un po’ deboli del sistema dell’arte (in comprensibile difficoltà coi messaggi brevi) di cercare spiegazioni nei territori rassicuranti della provocazione. E del resto, quel noto provocatore di Benedetto Croce lo aveva detto che, presto o tardi, di Pulcinella si sarebbe corso il rischio di ritrovare solo il nome e il vestito, lontani, come siamo, dalla molteplicità dei suoi sensi comici, dalla sua capacità di tagliare il tempo, di piegare i significati al suo gesto, di trovare corpi teatrali capaci di garantire la giusta erezione al suo costume. Pesce non parla solo al potere o al popolo, parla anche al mondo dell’arte e della cultura, con la stessa durezza e con la stessa franchezza. Di Pulcinella è rimasto un gigantesco costume, che da dietro può sembrare addirittura un fallo, lazzo residuale di una sessualità pacifica e generativa che pare avere poco a che fare col nostro presente, ma dal davanti sembra uno strano chapiteau, nel quale, stretto com’è, potrebbero trovare spazio ancora pochi artisti, magari uno sull’altro e, chissà, qualche cittadino di buona volontà che voglia sedersi attorno al mistero di Pulcinella (o al suo segreto…) e provare a rianimarlo. Il sovvertimento del senso, che è la chiave di quest’opera, combatte da sempre contro l’automatismo del pensiero e delle reazioni, che in epoca di social è non solo la regola, ma la più alta e autoalimentantesi forma di conformismo, compiaciuto nel travolgere in queste ore l’ultimo Pulcinella, che se anziché presentarsi così, nudo e crudo sulla pubblica piazza, fosse apparso all’improvviso, notturno e luminoso, avvolto da un sinuoso movimento di macchina, in un film, che so, di Sorrentino, avrebbe probabilmente soddisfatto e commosso la gran parte di chi ha voluto fucilarlo. Ma l’arte pubblica è questa: libertà e coraggio in mezzo alla gente, senza schermature di sorta. Un modo di stare al mondo che ognuno di noi vorrebbe gli appartenesse e che invece ci interroga da sempre più lontano. Le nostre città, impaurite e timide, hanno bisogno di questo coraggio, che l’arte può ancora dare, penetrando quotidianità ormai tetre e automatiche, colleriche e prive di tempo. Napoli, così internazionale e così popolare, ci ha insegnato ancora qualcosa e manda un messaggio anche a noi sindaci: il contemporaneo ha bisogno di noi, la sua intempestività è uno dei pochi scarti concessici nei pericolosi processi di presentificazione del senso, dai quali Pulcinella sarebbe fuggito spaventato, magari per nascondersi, sornione e irridente, negli antri di San Gregorio Armeno.

Michele Guerra, sindaco di Parma




Errata corrige. Ieri, nell’articolo dedicato al cosiddetto modello albanese, ho scritto che “la capienza dei centri albanesi annunciata dal governo è di 45 mila posti all’anno”. La stima aggiornata, come confermano fonti del Viminale, è in verità diversa: la capienza è pari a un massimo di 10.500 persone.

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