La realtà, non il tifo, è ciò che conta nella guerra in Ucraina

Ignorare, tacere o minimizzare le difficoltà di Kyiv, dalla difesa delle trincee al violento reclutamento, fino all’animosità fra i combattenti e i cittadini rimasti a casa, sarebbe un grosso errore. Ma la differenza decisiva non passa fra esaltatori e minimizzatori

Penso che ogni tanto valga la pena di ricordare cose che sembrano così ovvie da essere accantonate. Parlo dell’Ucraina. In questi giorni si moltiplicano i resoconti sulle difficoltà interne incontrate dalla conduzione della guerra di difesa dall’invasione russa. Non riguardano solo i guadagni dell’avanzata russa nel Donbas, che ci sono benché finora continuino a essere lenti e comportino un costo senza precedenti di morti e feriti nelle file russe. Riguardano una animosità sempre più lacerante fra i combattenti ucraini e i cittadini rimasti a casa, anche quelli senza obblighi di mobilitazione militare, per la sensazione amara di privilegio di una vita, povera e minacciata e infreddolita e buia, e tuttavia incomparabile con la sofferenza delle trincee. E riguardano, la parte più spettacolare, la documentazione della violenza esercitata dai reclutatori sugli uomini in età di mobilitazione, regolarmente ripresa in video e ridiffusa largamente, e spesso accompagnata dalla protesta o dalla resistenza attiva degli astanti. Fenomeni tutti ormai annosi, che tuttavia vanno rompendo gli argini. Quanto sia spinosa e arrischiata la questione è dimostrato dalla esitazione lunghissima ad abbassare l’età della coscrizione, passata peraltro dai 27 ai 25 anni: un esercito tradizionale recluta molto più precocemente, per giunta in una condizione di guerra totale, anche a non confrontarlo con quello israeliano, che annovera senza distinzione uomini e donne dai 18 anni (notizie aggiornate mostrano che, anche nelle file russe, l’età media dei soldati al fronte è altissima, sopra i 40 anni, come quella ucraina, con la differenza enorme del bacino di popolazione da cui attingere e dei metodi corrispondenti).

E poi c’è il calo di consenso nei confronti della leadership, che significa soprattutto nei confronti di Zelensky. Misurato ufficialmente, nel sondaggio appena pubblicato dall’Istituto di sociologia di Kyiv, registra un favore del 59 per cento del campione contro un 37 di sfiducia. All’indomani dell’invasione, avvenuta il 24 febbraio 2022, la fiducia per Zelensky aveva toccato il 90 per cento. La riduzione, a questa distanza, era del tutto prevedibile. Bisogna ricordare che il sondaggio non considera i milioni di ucraini, donne e uomini (e i bambini con loro) che hanno lasciato il paese. E che l’opinione largamente maggioritaria in Ucraina è che in nuove elezioni, quando potessero celebrarsi, l’eventuale candidatura di Zaluzhny avrebbe largamente la meglio su quella di Zelensky.

Questo sommario riassunto mi serve a ricordare l’ovvietà da cui ho cominciato: ovvia, ma non per questo – anzi, proprio per questo – necessaria. Essere contro l’Ucraina, sentimento, risentimento, vasto e compiaciuto, spartito equamente con il suo complemento, essere per la Russia, la Russia di Putin, induce a esaltare ogni notizia sulle difficoltà della difesa ucraina. Ma farebbe un grosso errore chi, in favore della difesa dell’Ucraina e contrario alla brutalità della Russia di Putin, si facesse indurre a ignorare, tacere o minimizzare quelle difficoltà.

La differenza decisiva non passa fra esaltatori e minimizzatori delle difficoltà ucraine. La realtà è l’unica cosa sulla quale si possa e si debba fare affidamento. La differenza passa fra chi di quelle difficoltà si frega le mani, e chi ne è addolorato e preoccupato, e desideroso di contribuire lucidamente ad affrontarle.

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