Danilo Rossi: una vita per la viola tra la Scala, il pop e il liscio

La versione del violista. “Alla Scala ho imparato tutto, ma mai smettere di essere curiosi. Non importa il genere, conta solo il livello artistico. Studio e umiltà sono la chiave del successo”

Trentasei anni alla Scala, prima viola solista, centinaia di concerti nel mondo, didatta con passione trasversale che non lo ha chiuso nei confini della classica. Dal jazz al liscio al pop, Danilo Rossi romagnolo di Forlì non si è negato nulla. “Quello che mi ha sempre importato è fare bene, dare il massimo. Il mio suono deve essere pura bellezza in ogni occasione”. Musicista “immenso e rosso”, per mole fisica e per un’ancestrale fede comunista che avrebbe compiaciuto Guareschi, è stato lo spauracchio dei direttori che si sono avvicendati nel teatro milanese: diceva signorsì se era convinto ma non perdonava la sciatteria o la spocchia e non lo mandava a dire. Innumerevoli episodi ha raccontato nel libro “Viola d’amore”, uscito per Baldini+Castoldi a gennaio scorso: come quando rischiò il licenziamento, nel 2020, per aver tuonato contro la rinuncia del teatro alla programmazione nel secondo lockdown. Se la prese pure con i sindacati e s’inventò “la Scala per le scale”, suonando sul pianerottolo di casa per gli inquilini del palazzo. O come quando, nel 2012, ai capricci del soprano Angela Gheorghiu nelle prove della “Bohème” s’alzò e le ingiunse: “Vai a tempo” (più un insulto irripetibile) perché il direttore d’orchestra non aveva il coraggio di dirlo.

Bisogna preoccuparsi a suonare con lei?

Sono stato educato al rispetto delle regole e mi dà fastidio la presunzione, soprattutto se non uguagliata dallo spessore artistico. Ma sono implacabile per primo con me stesso. Alla Scala ho avuto la fortuna di suonare con grandi direttori, ma la differenza la fa chi riesce a convincere tutta l’orchestra delle proprie scelte. Il capo illuminato.

Scrive che ci sono due tipi di direttori: quelli che trasmettono un’idea e quelli che seguono la partitura fino all’ultimo dettaglio. Chi preferisce?

Sono validi entrambi gli approcci, anche se sono convinto che l’ideale stia nel mezzo. Per me, gradisco più il visionario del filologo: possedendo la tecnica, non m’interessa chi mi sottolinei il rispetto della partitura, quanto chi trasmetta il genio intrinseco di una composizione.

Perché scelse la viola?

Ascoltavo il liscio da bambino e fui stregato dal violino, immancabile nell’orchestra di Secondo Casadei. Cominciai a studiarlo con profitto, ma nel quartetto del liceo musicale di Forlì mancava la viola e il maestro mi propose di impararla perché avevo le mani grandi. Non la presi bene, però m’impegnai per mostrarmi capace. Dopo tre mesi partecipai a un concorso nazionale con l’”Arpeggione” di Schubert, che è molto impegnativo, e vinsi il primo premio, sicché andai a Fiesole a studiare con Piero Farulli e l’anno dopo ero nell’Orchestra dei giovani europei di Claudio Abbado. A vent’anni entrai alla Scala. Devo ringraziare quel primo maestro: Romualdo Ravaioli.

E il suo talento.

Non sarebbe bastato. Ho avuto tanti allievi con una facilità innata maggiore della mia che hanno ottenuto risultati minori di quanto credessi perché è mancata la costanza, mentre altri con meno talento hanno brillato di più grazie all’impegno. Poi ci sono i casi in cui la predisposizione si accoppia a un grande sforzo. Allora è il massimo.

Il suo motto è “oltre le barriere”. Si è esibito con celebri solisti della classica ma anche con Sante Palumbo, con Ian Anderson dei Jethro Tull, Tony Hadley ex degli Spandau Ballet, con gruppi di liscio, con Vinicio Capossela.

Da ragazzo suonai anche nell’orchestra da ballo ritmosinfonica di Giovanni Fenati, un pianista fantastico che a un certo punto attaccava la “Rapsodia in blu” e in balera lo ascoltavano incantati. Non conta il genere, ma il livello artistico. Quando Sante Palumbo m’invitò a suonare ero prima viola della Scala ma andai a prendere lezioni di jazz.

La Scala non la faceva sentire “arrivato”?

È un posto magico per la sua tradizione e per il livello straordinario di chi ci è passato, però bisogna rifuggire dall’autoreferenzialità e non pensare che il mondo sia tutto lì dentro. Si deve rimanere umili e curiosi per non diventare disadattati di lusso e per evitare che il lavoro si riduca a una routine dorata.

L’antidoto?

Dare il massimo, ma non vorrei passare per secchione. Bisogna anche giocare un po’. Ricordo certi scherzi straordinari combinati in orchestra. Il mio spirito romagnolo deve condire la serietà con il sorriso.

Si riconoscerebbe tra i personaggi di “Prova d’orchestra” di Fellini?

Completamente. L’orchestra è una società in miniatura con i pregi e i difetti dei vari tipi umani: c’è l’esaltato, il depresso, il menefreghista, c’è chi pensa che gli scade una bolletta o deve andare dal meccanico. Alla realtà non si sottraggono gli artisti. E la realtà supera l’immaginazione.

C’è una composizione che condensa il suo amore per la viola?

Al di là del repertorio classico, l’assolo che Ennio Morricone scrisse per lo sceneggiato tv “Marco Polo”. L’ho suonato e diretto per la prima volta dal vivo e lo replicherò. Poche note ma di pura poesia, che m’incantarono da quando le sentii eseguite dal mio maestro Dino Asciolla. Un altro brano che propongo spesso in concerto è “The Great Gig in the Sky” dei Pink Floyd.

Quale consiglio a un solista sul palco? Nel libro ironizza sui mix di pasticche che prendono certi colleghi per vincere l’emozione.

La paura è un sentimento sano, non va combattuta ma gestita. Se ti sei preparato col massimo impegno sviluppi sicurezza persino se ti trovi, come mi è successo, nella sala del Conservatorio Tchaikovsky di Mosca gremita di tremila persone. Ricetta semplice: studiare, studiare, studiare.

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