Geografia romana dei poeti, da Pasolini a Rosselli. Un libro

Giorgio Ghiotti ha composto un utile breviario, una guida che sintetizza e fonde i punti quasi dimenticati dell’essere carne, vita, passioni, sfrenate o rabbuiate, dei poeti che vissero a Roma

La poesia è parola irreversibile. Se ne sta ferma, come questa roccia, come questa pietra, come queste targhe che svettano dal ventre dei palazzi, scoglio metafisico lasciato, in perfetta, smeraldina solitudine, a fendere i flutti del tempo e della memoria. Intersecate tra loro in un arabesco di biografie, parole, versi, toponomastica, incontri, conflitti, derive, le vite dei poeti trascolorano nelle vie e nei numeri civici e nella cabala burocratica degli appartamenti e delle intersezioni e nelle finestre che, mute, ancora oggi sembrano aver perso coscienza del passaggio di quegli spettri. Ogni sussurro, ogni imprecazione umanissima, lontana dall’idealtipo rarefatto e ambrato del poeta come essere vestito di giardini e cieli in fiamme, raccolte in questa mappa, in questa psicogeografia capitolina di quartieri e di frequentazioni, di amori e di odi profondi, lancinanti come fauci di ghiaccio. Giorgio Ghiotti ha composto un utile breviario, una guida che sintetizza e fonde i punti quasi dimenticati dell’essere carne, vita, passioni, sfrenate o rabbuiate, dei poeti che vissero a Roma, “A Roma – da Pasolini a Rosselli” (Giulio Perrone editore), impreziosito da una grafica di copertina di Maurizio Ceccato che rimanda l’austerità marmorea quasi alla Blake in cui ogni angelo è anche un demone sapienziale.

C’è Monteverde Vecchio, enclave taumaturgicamente isolata dal resto della città da una oculata penuria di mezzi di trasporto, villaggio senescente e verde, in cui ogni istante è inverno; e ci troviamo Giovanna Sicari, la sua esistenza, il suo passato, la considerazione di quanto pochi siano i poeti davvero nativi di Roma, approdo di costellazioni di differenti disperazioni. E sempre qui troviamo Pasolini che a Monteverde visse con l’amata madre. C’è, nella ellissi esistenziale di Pasolini, l’apertura urbanistica e creativa di Monteverde nuovo, la Roma di Donna Olimpia, la Roma delle trattorie, la Roma delle comitive in cui cesellare rapporti e ragnatele di interessi e di dolori e di affari e di progetti letterari. Ci sono le targhe, “qui visse”, il modo in cui la burocrazia si occulta e cerca di farsi perdonare il fatto stesso di esistere, mettendosi in apparenza al servizio della memoria poetica. C’è la Roma di via di Ripetta e della “poesia baraccata” di Valentino Zeichen, in quell’angolo senza uscita che si imbocca da via Flaminia, piccola angusta baracca dentro cui, come bunker immobile contro lo scorrere dei marosi del tempo, ha creato, composto e vissuto appunto Valentino Zeichen. C’è il rione Monti e la rivista “Braci”, Beppe Salvia, la cui sagoma eterea si staglia, opportunamente ricordata come in ciò che si sarebbe ripetuto decenni dopo con altra straordinaria figura di poeta intenso e misconosciuto, Gabriele Galloni, lungo un orizzonte di neve e di sguardo nel nero fondo. Le finestre, quelle finestre, dalle finestre in fiamme avrebbe detto anni dopo Foster Wallace, ma qui le finestre sono feritoie che danno direttamente sull’abisso e Beppe Salvia decise di seguire quella strada che digradava lungo pendici di asfalto e di eternità. Ricordato nel funereo giorno d’addio al Verano da Marco Lodoli. C’è la comunione dei vivi e dei morti, per citare Giovanni Raboni, a Testaccio, nella lingua di terra verde che si staglia ai piedi della Piramide Cestia; conosciuto come Cimitero acattolico, è in realtà il riposo di lapidi e marmi di molti poeti e uomini e donne di lettere, Amelia Rosselli, Dario Bellezza, Luce d’Eramo, Gadda, Gregory Corso, Juan Rodolfo Wilcock, ma prima ancora, a segnare un invisibile patto tra generazioni e stili, John Keats e Percy Bysshe Shelley. C’è la Roma di Trastevere e del centro storico, l’intreccio caotico, sofferente, ebbro di amore e di desolazione di Dario Bellezza, poeta di somma, cruenta bellezza già lodato da Pasolini e poi dimenticato, e di Amelia Rosselli che come Salvia decise, d’un tratto, per sfuggire alle ombre nere della mente, di prendere la via del vuoto. Non c’è nel libro e la si aggiunge qui la Roma di Cristina Campo, nella beata solitudine di piazza Sant’Anselmo, nel verdeggiante Aventino, da dove dispensare senso di assenza e di cristallina bellezza, in versi destinati a irradiare dal colle giù verso il resto della città santa. Qui targhe non ce ne sono. Ed è il caso che il Comune o qualche mano gentile e grata si adoperi.

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