Il cuore Toro di Vanoli a metà tra Conte e Sacchi

Ha riportato il Torino in testa alla Serie A facendosi amare dai tifosi e un po’ meno dal suo presidente

Quando è salito sulla collina di Superga, primo atto della sua esperienza da tecnico del Torino, Paolo Vanoli ha provato i brividi sulla pelle, ha visto i ricordi e i racconti che aveva sentito per anni diventare improvvisamente concreti, tangibili, reali. “Per fare grandi cose devi conoscere la storia, Torino è la storia e questa che provo è l’emozione di essere orgogliosi di poter guidare questo grande club”, ha detto con parole che possono suonare retoriche, ma hanno il merito di rimettere i granata al centro del discorso calcistico. Era dalla diciassettesima giornata del campionato 1976-77 che il Toro non guardava tutti dall’alto in basso in questa solitudine certamente effimera eppure, per chi per troppo tempo si è sentito ingiustamente marginale, meravigliosa. Torino-Bologna 1-0, quel giorno: gol di Ciccio Graziani contro il Bologna, la Juventus che pareggia in casa del Genoa, il sogno di una clamorosa doppietta dopo il titolo dell’anno prima che si fa concreto. Soltanto qualche mese prima si era conclusa l’agonia di Giorgio Ferrini, l’ennesima insensata tragedia di una squadra che ha un’affinità sinistra con il dolore: era passato dal campo alla panchina, da essere alfiere del Toro a centrocampo a guardarlo da seduto come vice di Gigi Radice. Quel titolo, in volata, lo avrebbe poi vinto la Juventus, in un senso di restaurazione che nessuno, in casa granata, ha mai digerito del tutto.

Non vincerà lo scudetto il Torino di Paolo Vanoli, e neanche lotterà per farlo, perché i tempi sono cambiati e le favole raramente si concludono col lieto fine, ma intanto è bello vederlo lassù, anche solo per i concetti di gioco che ha espresso in quasi tutte le partite di questo lampo iniziale di campionato, arrancando per davvero soltanto in casa contro il Lecce, tenuto sullo 0-0 dai miracoli di Vanja Milinkovic-Savic, ex brutto anatroccolo che da un paio di mesi a questa parte si è riscoperto cigno in grado di raggiungere e smanacciare angoli e palloni fino a poco tempo fa irraggiungibili. È bello anche perché le premesse erano state le peggiori: il saluto apparentemente inevitabile a Buongiorno, quello arrivato come un fulmine a ciel sereno di Bellanova con il mercato ormai a un passo dalla conclusione. E l’ennesimo atto di una contestazione perenne nei confronti di Urbano Cairo, ritenuto in maniera pressoché unanime dalla piazza come l’uomo che ha deciso di mettere il freno alle ambizioni del Torino.

Al momento dell’addio di Bellanova direzione Bergamo, con tono pacato ma deciso, Vanoli ha messo i puntini sulle i, affrontando Cairo in pubblica piazza senza alzare la voce: una presa di posizione meno spettacolare delle intemerate delle quali si faceva alfiere il suo predecessore Juric eppure estremamente credibile. “Non me lo aspettavo, non c’erano avvisaglie in tal senso. Non sono un tipo che cerca spiegazioni sulle dinamiche dei trasferimenti. Quando un giocatore viene venduto a tua insaputa, è anche inutile farlo. Non mi piango mai addosso. Non sono d’accordo con questa cessione, ma alzo la testa e vado avanti. Ho detto al presidente in faccia ciò che penso, ma non sono uno che batte i pugni”, ha quindi detto in conferenza stampa, aggiungendo un concetto che lo ha reso immediatamente portavoce di un certo tipo di torinismo: “La mediocrità è l’unica cosa che mi dà fastidio. Alla società ho detto di avere più coraggio e di tirare fuori le sue potenzialità”.

Musica dolce per una tifoseria che da anni rimprovera proprio questa tendenza a sguazzare nella mediocrità, quelle posizioni tutte uguali tra la nona e la quattordicesima, una classe media senza nobiltà che non fa onore alla storia del Toro. Neanche lui è però riuscito a rovesciare la maledizione che da anni pende sui granata in Coppa Italia, eliminati in maniera beffarda dall’altra grande sorpresa di questo inizio stagione, l’Empoli, salvato a più riprese dalle giovani mani di Jacopo Seghetti, portiere classe 2005 al debutto da professionista. È l’unica piccola macchia in un inizio di stagione fin qui perfetto.

Arriva da lontano Vanoli, abituato a correre e a sgobbare come quando lo faceva sulla fascia sinistra da calciatore: oggi forse lo definiremmo un “quinto”, dal Bellinzago e dal Corsico si era arrampicato fino a indossare la maglia del Parma più forte di sempre, un umano in mezzo ai vari Crespo e Cannavaro, Veron e Thuram, Chiesa e Buffon. Sul tabellino dell’ultima Coppa Uefa vinta da una squadra italiana, Parma-Olympique Marsiglia 3-0 a Mosca, c’è anche il suo nome tra quelli di Chiesa e Crespo: incornata su invito di Diego Fuser, un altro che il Torino lo conosce bene, per il momentaneo 2-0. Ed è partito da lontano anche in panchina, un assaggio al Domegliara, quindi sette anni a fare la trafila da tecnico federale, a volte da vice, altre volte da tecnico in prima. Aveva lasciato la Figc soltanto quando Antonio Conte gli aveva chiesto di seguirlo al Chelsea, un’esperienza che lo ha segnato sotto tanti punti di vista: nel vedere i movimenti delle due punte del Toro si fatica a non scorgere un’impronta profondamente contiana. L’altro segno lo ha lasciato Arrigo Sacchi, incrociato ai tempi dell’esperienza di Coverciano: “Mi ha sempre detto che le squadre devono essere un’orchestra”.

Il suo Toro sembra meno ermetico di quello di Juric, ma è arioso, non ha paura di rischiare, di esporsi. Ha dato spensieratezza a Ilic, che a un certo punto dell’estate pareva già ceduto; ha creduto in Lazaro, eterno incompreso; alterna con sapienza Sanabria e Adams al fianco di Zapata, il totem granata di questa stagione, il nuovo capitano “perché il capitano deve innanzitutto rappresentare i suoi compagni, e Duvan lo fa bene”, in una sorta di replica di quanto gli era accaduto a Venezia con Pohjanpalo. In Laguna ci era arrivato dopo l’esperienza allo Spartak, una chiamata in corsa, la prima da allenatore senza rete di sicurezza: a Mosca aveva lavorato anche un altro ex assistente di Conte, Massimo Carrera. E da Mosca se ne era andato, Vanoli, con una Coppa di Russia in più nel curriculum e una guerra infiammatasi in quei mesi. Al Venezia aveva trovato una squadra penultima in Serie B, nove punti in 12 partite, una devastazione. Si era aggrappato fino all’ottavo posto, uscendo ai playoff, ponendo le basi per la promozione dell’anno successivo, sempre tramite playoff. Non ha saltato neanche una tappa, prendendosi un posto in Serie A a 52 anni, in silenzio, lasciando che a parlare fossero lavoro, serietà, compostezza. Merce rara.

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