Scrittori che insegnano a stare nel mondo

Leggere e rileggere Georges Simenon (in uscita per Adelphi c’è “Malempin”) e Lucia Berlin a partire da “Sto sempre cercando una casa”, la sua biografia liofilizzata (ne cambiò trentatré)

Rentrée con i trafelati e gli stakanovisti: c’è qualcosa di meglio di Georges Simenon e Lucia Berlin?

A dispetto degli smidollati di tutto il mondo, instagrammantisi in beata solitudo contemplanti il vuoto nella cornice di una finestra #momentidime, tra il 1934 e la fine del 1939, durante il cosiddetto periodo Gallimard, Georges Simenon non ha un attimo libero: scia sulle Alpi tirolesi, passa le vacanze sul lago Maggiore, vive in un paio di alberghi, matura un’idiosincrasia profonda per il mondo letterario parigino, viaggia in Olanda e Normandia, fa un figlio, decide la separazione da Tigy, nei tempi morti butta giù una ventina di racconti di Maigret per Paris Soir e scrive trenta romanzi-romanzi. Trenta, e tutti arricchiti da queste e altre esperienze personali, che Simenon, come ogni grande scrittore, si è guardato bene dal servire sul piatto dell’autofiction scondite e senza lievito. Romanzi che affrontano l’alienazione, la fuga, il destino, la solitudine. Racconti di famiglie. Quante famiglie nei romanzi di Simenon? I padri e i figli, e più padri che madri. “In Simenon tutte le famiglie infelici si somigliano”, scrive Stanley G. Eskin nella miglior biografia dedicata allo scrittore (la pubblicava Marsilio), e sono tutte unite dall’odio. Ostilità, morbosa vicinanza, fosco isolamento: ecco la ricetta della più tremenda chimica simenoniana, che raggiunge il suo culmine proprio nel cosiddetto periodo-Gallimard. “Malempin” – in uscita tra qualche giorno presso Adelphi, ne avrete notizia su queste pagine – è stato scritto nel 1939 e ha alle spalle una manciata di capolavori come “Il testamento Donadieu” (l’unico ad avere un seguito e anche il solo a non essere stato scritto in tempo record), “I Pitard”, “La Marie del porto” e “L’uomo che guardava passare i treni”.

Di Lucia Berlin non uscirà nulla a breve, ma va letto tutto immediatamente. Vent’anni dalla sua morte proprio quest’anno – non che si siano sprecati i festeggiamenti, diciamo, eppure se c’è una scrittrice che ci insegna a stare al mondo, di meglio si fa fatica a trovare. Altra indaffaratissima senza un attimo per scrivere, ha scritto moltissimi racconti in grado di polverizzare quelli di tanti suoi coevi ben più celebrati. Nata in Alaska nel periodo in cui Simenon scriveva i Maigret di cui sopra (1936), da bambina si trasferisce a El Paso con la madre da un fratello di lei, un dentista alcolizzato (memorabile il racconto di come si estrasse un dente da solo in “La donna che scriveva racconti”). Poi, dopo la guerra, eccola in Cile: vita mondana, un busto d’acciaio per correggere la scoliosi e una madre che andava a letto con la bottiglia. Poi l’università, due figli, la fuga dal primo marito, il matrimonio con un pianista nel 1958 e il trasferimento a New York, quindi la partenza per il Messico dopo averlo piantato. Il terzo lo sposa prima di saperlo tossicomane, ci fa due figli e se ne va. In California, dove si rifugia, lavora come centralinista, donna delle pulizie e infermiera. Inciampa nell’alcol, sconfigge l’alcol, tira su quattro figli, assiste la sorella moribonda e diventa una delle insegnanti più amate a Boulder, Università del Colorado. “Ingigantisco le cose”, il suo procedimento di scrittura. “Sto sempre cercando una casa”, la sua biografia liofilizzata (ne cambiò trentatré). “Mi piace sentire che la vita va, e questo è tutto ciò che accade: che la vita va.” Come i suoi splendidi racconti: filano come treni e sono pieni di gente.

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