I mercati europei vanno aperti, ma la politica difende lo status quo: chi è contrario all’integrazione?

I paesi europei stanno perdendo la loro sovranità finanziaria: la combinazione di forze contrarie all’integrazione europea intimorisce i governi nazionali, spingendoli a scelte protezionistiche. Tocca alla nuova Commissione impedire che si scivoli verso la desertificazione del mercato finanziario Ue

Tra le buone notizie sulla nuova Commissione europea che sta per insediarsi c’è l’attribuzione della responsabilità sui servizi finanziari alla portoghese Maria Luís Albuquerque. E’ una buona notizia perché la nuova titolare ha una conoscenza diretta nella materia, acquisita con la sua esperienza sia nel settore pubblico sia in quello privato, che le sarà utile per dare un impulso significativo al progetto di integrazione europeo. A parole, tutti si dichiarano a favore del completamento dell’unione bancaria e dei mercati dei capitali. I recenti rapporti di Draghi, Letta o Noyer e le numerose affermazioni pubbliche di esponenti politici europei ricordano la necessità di superare la frammentazione dei mercati nazionali per sostenere gli investimenti necessari alla transizione ambientale e digitale.



Sono tuttavia in pochi a spiegare perché, da anni, non si riesce a passare dalle parole ai fatti. Il motivo è che sono in campo importanti forze contrarie all’integrazione finanziaria. Il primo gruppo è costituito dai regolatori e dai supervisori nazionali. Per far crescere il mercato europeo e renderlo competitivo con quello americano è necessario avere un quadro regolatorio uniforme per l’intero continente e una autorità di vigilanza sovranazionale forte. Ciò è avvenuto, in parte, nel settore bancario ma non ancora in quello del mercato dei capitali. Il motivo è l’opposizione soprattutto delle varie Consob nazionali, che non vogliono accettare una riduzione dei loro poteri regolatori sui rispettivi mercati nazionali. L’autorità europea (Esma) ha ancora pochi poteri e le decisioni vengono prese solo con il consenso delle autorità nazionali.



Il secondo gruppo di interesse contrario alla realizzazione di un mercato finanziario integrato è costituito dagli operatori che svolgono un ruolo dominante, dalle borse ai depositi titoli, le cui dimensioni sistemiche consentono di esercitare una forte influenza sui regolatori nazionali. Il terzo gruppo, infine, è costituito da molti operatori finanziari extraeuropei, in particolare quelli americani, che traggono vantaggio dalla frammentazione europea, tra cui quello di poter scegliere liberamente in quale paese stabilire la loro sede, in base alla regolamentazione e al sistema fiscale più favorevoli.


La combinazione di queste forze contrarie all’integrazione europea intimorisce i governi nazionali e li spinge a difendere lo status quo e a opporsi a processi di integrazione, senza rendersi conto che il risultato delle loro azioni protezionistiche è quello di favorire una progressiva desertificazione del mercato finanziario europeo. Il problema è che non vi è una chiara percezione, a livello di singoli stati membri e dell’intera Unione, dei costi che comporta l’attuale frammentazione per l’economia europea. In altre parole, manca una analisi chiara del costo della non-Europa, soprattutto per le famiglie e per le imprese europee.



Eppure, l’evidenza non manca. Basterebbe contare il numero di aziende europee che ogni anno si ritraggono dalle borse nazionali per andare a insediarsi negli Stati Uniti, per poter beneficiare della maggior valutazione garantita in quel mercato. Basterebbe esaminare come l’enorme risparmio delle famiglie europee sia oramai gestito in larga parte da istituzioni finanziarie non europee, in base a valutazioni e criteri di allocazione del portafoglio che non sempre coincidono con gli interessi europei. Non è un caso che ogni volta che si verifica uno choc economico o politico a livello globale, i titoli statunitensi e il dollaro salgono, a scapito di tutto il resto. Basterebbe, infine, verificare quanto non sia più possibile in Europa effettuare operazioni significative – come i prestiti sindacati, le privatizzazioni, le fusioni o acquisizioni, le cessioni di rami d’azienda, ecc. – senza il supporto essenziale fornito da operatori statunitensi (banche, agenzie di rating, private equity, fondi di investimento, venture capital).



L’analisi cruda dei dati mostra che i paesi europei stanno gradualmente perdendo la loro sovranità finanziaria. I responsabili politici non sembrano accorgersene. Continuano ad agire come se la protezione dei loro piccoli mercati e le loro piccole istituzioni finanziarie siano una garanzia di sopravvivenza, senza capire che così facendo non fanno che accelerarne l’irrilevanza. E’ compito della nuova Commissione europea aprire loro gli occhi e suggerire un percorso per recuperare la sovranità finanziaria, almeno a livello europeo.

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