Oltre Unicredit e Commerzbank: così i grandi gruppi fanno shopping oltreconfine

Un’impresa del Bel paese barcolla? Un barbaro la salverà. Ma non tutto è conquista, anche l’Italia non è stata da meno: nell’ultimo decennio il valore delle nostre acquisizioni negli altri paesi è stato superiore

La Commissione europea non ha voluto commentare il caso singolo, tuttavia secondo un portavoce “le fusioni potrebbero rendere le banche più resilienti agli choc grazie a una maggiore diversificazione degli asset” e garantire “modelli di business più efficienti, perseguire strategie di crescita e investire nella digitalizzazione”. Insomma, “banche globali più grandi e diversificate andrebbero a vantaggio dell’economia europea”. Aperture anche dal ministro delle Finanze tedesco, Christian Lindner, che nel corso di una tavola rotonda sul tema ha detto che “il governo federale non può, non deve e non vuole essere coinvolto a lungo termine in una banca privata”.


I barbari alle porte? E chi sono i barbari? In questi giorni, per i tedeschi i barbari siamo noi. L’italiana Unicredit vuole la Commerzbank, e non esclude una scalata ostile, cioè non concordata, per controllare la seconda banca della Germania, salvata dal governo dopo che era stata sul punto di saltare con la grande crisi finanziaria del 2008. Apriti cielo. I sindacati, che siedono in consiglio di amministrazione, suonano corni di guerra, il governo di Berlino preso alla sprovvista non sa che fare, la Bundesbank è favorevole, Bruxelles auspica concentrazioni “transfrontaliere”, visto che tutte le prime dieci banche della Ue non raggiungono da sole la taglia della JP Morgan, ma battaglie finanziarie come queste sono inusuali in un mondo degli affari dove tutti si scambiano favori, in omaggio alla cultura consociativa europea. Andrea Orcel, l’amministratore delegato di Unicredit, che pure è nato a Roma, sta facendo l’americano. Per ora ha il 9 per cento delle azioni, ha chiesto alla Bce di poter salire fino al 30 per cento. Dopo aver rifiutato di comprare il Monte dei Paschi di Siena, Orcel ha fatto il pieno di profitti con l’obiettivo di far diventare Unicredit la prima banca paneuropea. Il progetto era già pronto nel 2022, poi l’invasione russa dell’Ucraina ha consigliato di aspettare. Si parla di un contrattacco tedesco usando la Deutsche Bank controllata da fondi d’investimento internazionali, che però, secondo molti analisti, non ha le munizioni per ingaggiare una guerra di mercato. Bandierine, confini, nazioni, lo “spirito del tempo” le ha rispolverate dalla soffitta della storia, sfidando la ruota della realtà che in Europa e in buona parte del mondo gira in senso inverso. La mossa di Orcel è senza dubbio la più ambiziosa, ma non è l’unica operazione all’estero di grandi aziende italiane.

La Ferrero ha creato in Belgio un gruppo parallelo e sta comprando in tutto il mondo, ormai fattura una ventina di miliardi di euro. L’allora Finmeccanica aveva acquistato l’inglese Westland e oggi l’Agusta fa elicotteri anche per gli americani. Benetton, messa alla gogna in patria, si espande all’estero, ultima mossa in Cile. La Mediaset dei Berlusconi è in Spagna e in Germania con Prosiebensat, ma vorrebbe creare un gruppo televisivo europeo. L’Enel controlla dal 2006 Endesa, la più grande società elettrica spagnola. L’Eni da tempo ha una dimensione globale. Amplifon, Angelini, Campari, Chiesi, Diasorin, Prysmian, Menarini, sono alcuni nomi di multinazionali non più tascabili. Sia chiaro, il capitale straniero non è sazio: il gruppo francese Fnac controllato dal miliardario ceco Daniel Kretínsky, ha puntato su Unieuro e il governo è pronto a usare il golden power anche se non si capisce che cosa ci sia di strategico da proteggere, forse i dati personali di chi compra un’aspirapolvere Dyson? Anche la Tod’s è finita nell’universo di Bernard Arnault, il gran burattinaio del lusso che tira i fili della moda (Vuitton), dei profumi (Dior), dei gioielli (Tiffany e l’italiana Bulgari), dello champagne (Moët & Chandon) del cognac (Hennessy). Tuttavia dal 2014 al 2023 sono state concluse dall’Italia 1.673 acquisizioni fuori dai confini per 238 miliardi di euro. Le aziende estere hanno acquisito più società in Italia (2.948) ma vi hanno investito meno (203 miliardi). L’immagine del Bel Paese terra di conquista è solo propaganda.

Le imprese sono state svendute, il risparmio degli italiani viene fagocitato dai pescecani stranieri? Lvmh per Bulgari ha pagato 4,2 miliardi di euro con un premio del 61 per cento rispetto all’ultima chiusura del titolo in Borsa. I fratelli Loro Piana hanno incassato oltre due miliardi di euro. Parmalat è costata 4 miliardi di euro ai Bernier. Le aziende non sono state smembrate, i lavoratori non sono stati licenziati, la produzione non si è ridotta né è stata portata all’estero, i marchi non si sono appannati al contrario splendono più che mai nella “fiera delle vanità”. È vero che in particolare nell’ultimo decennio molte imprese di punta sono diventate multinazionali con il cervello fuori dall’Italia o sono ormai di proprietà estera. È falso che siano state comprate per un tozzo di pane, spolpate e gettate sulle barelle dello “stato ospedale” il quale interviene sia staccando assegni sia con uno strumento indiretto di salvataggio come il golden power, cioè il potere che lo stato si arroga di decidere che cosa può fare o non fare il capitale privato.

Certo, Stellantis che ha assorbito la Fiat non se la passa bene, ma per questo nemmeno la Volkswagen o la Bmw. Per capire cosa non ha funzionato nella fusione tra Fiat-Chrysler e Peugeot-Citroën (più Opel) non bisogna evocare la presenza dello stato francese che possiede una quota del 6,5 per cento né la sua eventuale collusione con la famiglia Peugeot, seconda azionista con il 7,5 per cento dopo la Exor di John Elkann con il 15 per cento. Più che pulsioni nazionalistiche, servono valutazioni industriali. Era davvero il matrimonio giusto? Sappiamo che la Fca aveva cercato altrove, in Francia aveva sondato la Renault, ma in questo caso il governo di Parigi, azionista di riferimento, aveva altri piani. C’erano ipotesi tedesche, la vecchia idea della Mercedes o la Bmw che avrebbe portato segmenti di mercato medio-alti che mancano. La Fca rispetto alla Psa aveva un forte radicamento nelle Americhe (Stati Uniti con la Chrysler e Brasile con la Fiat) che oggi generano il 56 per cento del giro d’affari di Stellantis. In più aggiungiamo le giravolte del top manager Carlos Tavares, prima fiero avversario del motore elettrico, poi diventato un elettrificatore spinto. Ci sono stati anni buoni dopo la pandemia che hanno moltiplicato i profitti, adesso è arrivato il ciclo basso, anzi una crisi che forse non è passeggera e gli azionisti mugugnano. Ora che la Volkswagen chiude uno stabilimento tedesco e uno cinese per disfarsi di 15 mila dipendenti, suona davvero la campana e non c’è più bandiera che tenga. Un allarme di mercato è scattato anche per la Whirlpool che ha mollato l’Italia (gli stabilimenti sono finiti alla turca Beko). La multinazionale americana rischia di finire alla tedesca Bosch perché il settore elettrodomestici è in difficoltà come l’automobile. Volendo, possiamo passare in rassegna i 63 “tavoli di crisi” al ministero guidato da Adolfo Urso: troveremo la stessa scena con attori diversi.

Il paradigma della Fenice

Le cattive notizie scacciano quelle buone, come diceva a proposito della moneta il banchiere inglese Thomas Gresham a metà del ‘500. Cominciamo dalle privatizzazioni, che per molti versi sono un vero spartiacque. Dopo la leggenda del patto raggiunto a bordo del Britannia, lo yacht della corona inglese, non si è fatto che parlare di un pezzo di stato gettato in pasto alle banche d’affari anglo-americane. E’ davvero così? Prendiamo un caso eclatante, quello della Nuovo Pignone. L’Eni vende l’azienda alla General Electric che si prende anche la parte aeronautica della Fiat aviazione mentre lo spazio è controllato da Leonardo. L’azienda fiorentina diventa la capofila del settore petrolio e gas, poi tra il 2017 e il 2019 il colosso fondato nel 1892 da JP Morgan si ristruttura e il comparto viene ceduto alla Baker Hughes che investe 30 milioni di dollari. Non tutte le privatizzazioni finite agli stranieri sono andate bene, se pensiamo alla odissea delle acciaierie ex Italsider passate a industriali indiani, russi, algerini, ucraini. Ma sono stati gli italiani a mollare (è il caso della famiglia Lucchini). Nella Telecom, gli spagnoli (Telefonica) arrivano quando le banche italiane si ritirano, poi i francesi (Bolloré con Vivendi) s’inseriscono in un vuoto di potere.

La maggior parte delle cessioni internazionali sono la conseguenza di ritirate nazionali, dello stato e dei privati. Dopo anni di difficoltà, Finmeccanica ha venduto l’Ansaldo Breda ai giapponesi: dal 2015 si chiama Hitachi Rail, continua a costruire i treni ad alta velocità Frecciarossa, gli stabilimenti di Pistoia, Napoli, Reggio Calabria lavorano non solo per Trenitalia, ma per le ferrovie dei Paesi Bassi, del Belgio, della Danimarca, per le metropolitane di Copenaghen, Roma, Brescia, Milano, Salonicco, Taipei. La Fiat ferroviaria che aveva inventato il Pendolino, ceduta alla francese Alstom controllata dal gruppo del costruttore Bouygues, produce il Tgv e i locomotori per Italo. Ferruccio Lamborghini, balzato dai trattori alla Miura, si rinchiude nella sua tenuta in Toscana nel 1972 a soli 56 anni, poi si pente, ma ormai è troppo tardi, l’azienda gira come una trottola, dagli svizzeri ai francesi, entra nella Chrysler e non funziona, finché nel 1998 non arriva la Audi del colosso Volkswagen-Porsche che nel 2012 aveva acquistato anche la Ducati, venduta dalla Finmeccanica, passata per molte mani anche italiane come la Cagiva dei fratelli Castiglioni i quali l’hanno ceduta al fondo americano Texas Pacific. Un percorso travagliato finché viene rilanciata dai tedeschi. Lamborghini e Ducati sono ancora a Bologna, non in Baviera, i loro marchi non sono stati fagocitati né appannati, anzi luccicano di nuovo. La crisi della Volkswagen potrebbe rimettere in discussione anche queste storie di successo, tuttavia l’“auto del popolo” è in difficoltà nelle vetture per il popolo non in quelle di lusso.

L’industria alimentare ci fornisce un’altra prova provata di come sia toccato agli stranieri venire in aiuto agli italiani. Un aiuto non gratuito, è ovvio, e spesso non gradito, ma nell’insieme benefico. Carlo De Benedetti voleva creare un campione nazionale prendendo le aziende messe in vendita dall’Iri guidato da Romano Prodi, a cominciare dalla Buitoni che possedeva anche la Perugina. Non è finita bene. E nel 1988 è arrivata la Nestlé. L’Alemagna dopo esser passata dall’Iri anch’essa alla Nestlé, torna in Italia tra Bauli e Autogrill. La Motta che ha inventato il panettone segue la stessa sorte con la Nestlé che si tiene solo i gelati.

E’ diventata un successo una delle cessioni più controverse, quella della Parmalat alla Lactalis della famiglia francese Bernier nel 2011. Sono passati vent’anni dal crac provocato non dal perfido straniero, ma da un italiano che aveva messo in piedi uno schema finanziario degno di Charles Ponzi, dal quale è stato soffocato. Per la Parmalat si fa avanti la Granarolo, ma viene scartata anche per ragioni politiche: fa capo alle cooperative rosse e al governo c’è Silvio Berlusconi. Il commissario risanatore, Enrico Bondi, aggiusta i conti e pensa di vendere i pezzi meno essenziali al core business. Poi arrivano i francesi che spendono in parte a debito. Lactalis dal 2006 aveva già acquisito la Galbani attorno alla quale ha costruito un vero e proprio polo dei formaggi con marchi storici come Invernizzi e Locatelli, poi Castelli, Ambrosi (Parmigiano reggiano) Leerdammer. Con 31 stabilimenti produttivi e 5.300 dipendenti è il gruppo più grande in Italia che rappresenta il secondo mercato dopo la Francia. Il fatturato italiano è di circa tre miliardi di euro, poco superiore a quello della Barilla. E la birra che va molto di moda soprattutto tra i giovani? Peroni è stata comprata dalla giapponese Asahi, mentre Moretti, Dreher, Messina e Ichnusa dalla olandese Heineken. Oggi si trovano in tutto il mondo. La Peroni un tempo icona romanissima, ha sfondato persino negli Stati Uniti.

La trappola della boutique

Il gran romanzo della moda è rimasto una storia italiana. E questo non è affatto un vanto. Cominciamo da un confronto internazionale. Per avere un’idea della differenza di taglia prendiamo la classifica di Deloitte (in dollari americani): Lvmh veleggia verso 90 miliardi di fatturato, Kering e il gruppo svizzero Richemont della famiglia sudafricana Rupert (mette insieme tra gli altri i marchi Cartier, Van Cleef, Montblanc), sono sopra i 22 miliardi; Estée Lauder circa 18 miliardi; L’Oréal 16; Hermés 12; Rolex 10. Il primo gruppo italiano è Prada al 18esimo posto con quasi 5 miliardi, Moncler 27esimo con un giro di affari poco superiore ai 2 miliardi, grosso modo come Armani. È una competizione impari. Se consideriamo la capitalizzazione, il gap è persino maggiore con Lvmh circa 317 miliardi di euro, Kering 250, Hermès 213 miliardi, Prada quotata a Hong Kong poco più di 17 miliardi di euro, Armani non è in Borsa. Secondo Forbes il “signor Armani” come tutti lo chiamano, ha un patrimonio netto di 11 miliardi di dollari, ma secondo le stime l’azienda potrebbe valere circa 5 miliardi di euro se fosse quotato a Piazza degli Affari. Anche chi vuol andare avanti da solo sulle orme di Hermès, ha una distanza enorme da colmare. Il mercato non è più domestico, nemmeno europeo, è mondiale; non c’è settore industriale più internazionale della moda, qui non solo il piccolo non è bello, tanto meno appena si supera una dimensione poco più che artigianale, ma la taglia è fondamentale.

Il salto di qualità nella moda è avvenuto con l’ingresso di grandi gruppi internazionali e dei fondi di investimento. François Pinault (Kering) nel 1999 acquisisce Gucci sconfiggendo Bernard Arnault che si lancia in una vera campagna d’Italia alla quale nessuno è in grado di contrapporsi. Una holding nazionale tipo Lvmh non c’è e non potrebbe più nascere. Un tentativo era stato fatto nel 1997 con la fusione tra la Marzotto e la finanziaria Hpi, operazione chiamata anche Supergemina perché coinvolgeva la Gemina, società finanziaria che faceva capo a Cesare Romiti e famiglia. Il nuovo gruppo doveva essere guidato da Pietro Marzotto e Maurizio Romiti, sotto la regia di Mediobanca. Durò da marzo a maggio. Cinque anni dopo la Hpi diventata Hdp vende la maison Valentino a Marzotto che controlla anche la tedesca Hugo Boss. Ma presto scoppiano dissensi nella famiglia di Valdagno e nel 2003 viene sfiduciato Pietro Marzotto che aveva cercato di tenere insieme interessi diversi e divergenti anche tra i suoi ormai numerosi parenti.

La spinta del creatore e dell’imprenditore oggi non basta più. Prendiamo ancora Valentino. Dopo l’infelice accordo con la Hdp dei Romiti e il passaggio, anch’esso non brillante, attraverso il gruppo Marzotto, Valentino Garavani si ritira e con lui Giancarlo Giammetti che gli era stato vicino per mezzo secolo come braccio destro industriale e come compagno. Marzotto vende marchio e azienda al fondo britannico Permira, filiazione della Schroder Ventures Europe, che sborsa 5,3 miliardi di euro. Nel 2012 scende in campo il fondo sovrano del Qatar, Mayhoola for Investments che nel 2016 rileva Pal Zileri. Poi si stringe un rapporto tra Mayhoola e Pinault che porta il 30 per cento di Valentino nel gruppo Kering per 1,3 miliardi di euro.

Angeli e avvoltoi

I fondi di investimento sono protagonisti, come abbiamo visto. Nel frattempo hanno cambiato pelle. Un leveraged buyout come quello di Kkr che nel 1989 ha scalato la Rjr Nabisco con soldi tutti presi in prestito, è archeologia finanziaria. I fondi non arrivano più solo per spolpare aziende in difficoltà, rivenderne i pezzi pregiati e scappare con il malloppo. Si sono specializzati e nel loro campo detengono competenze che non hanno né le banche né i singoli imprenditori. I casi di successo sono davvero molti e ormai ci sono fior di protagonisti italiani (Anima, Eurizon, Equita solo per fare dei nomi). Il passaporto non ha molto senso in imprese il cui fatturato dipende in modo preponderante dall’estero. I fondi non sono angeli come quelli che finanziano le start-up (del resto intervengono in aziende che hanno un passato e possono avere subito un futuro), ma non sono più nemmeno avvoltoi anche se non mancano i predatori.

Di loro ha bisogno lo stesso Arnault, in particolare di un fondo americano nato nel 1989 a Greenwich (Connecticut) come Catterton Partners. Nel 2016 si unisce a L Capital creato dalla Financière Agache cassaforte della famiglia Arnault e da Lvmh, nasce L Catterton con un 60 per cento nelle mani degli americani e il 40 per cento in quelle del re del lusso. Il nuovo veicolo finanziario ha una vasta gamma di investimenti (oltre 200) per circa 35 miliardi di dollari, secondo la rivista Challenge è “il braccio armato di Arnault fuori dal luxury in senso stretto”, il fondatore Michael Chu sostiene invece di operare “in modo indipendente; anche se non nega “un rapporto speciale” con Lvmh, deve render conto agli altri suoi investitori. In Italia possiede già Etro e l’ultima operazione coinvolge i fratelli Della Valle. Tod’s esce dalla Borsa con un’opa lanciata da Crown Bidco al prezzo di 43 euro per azione più un premio che porta a 512 milioni l’intera valutazione. La società acquirente fa capo a un fondo controllato da L Catterton. Al termine dell’intera operazione il 54 per cento della società resta ai Della Valle, il 36 per cento va a L Catterton e il resto alla Delphine, finanziaria di Lvmh. Si tratta di una fase, probabilmente di transizione. La Tod’s negli ultimi anni sembrava aver raggiunto il massimo della propria espansione con un fatturato attorno a un miliardo e 100 milioni di euro. Catterton dovrebbe aiutare l’espansione negli Stati Uniti.

E i Della Valle, anche loro gettano la spugna? Può darsi, per il momento hanno scelto di cambiare pelle, prima di rischiare il crollo. Non è riuscito ad altri principi del made in Italy, come Roberto Cavalli, Trussardi, Gianfranco Ferrè, Romeo Gigli. Hanno perso il momento, sono stati schiacciati da brand con una potenza finanziaria e commerciale maggiore. Sono storie di successo e di insuccesso nello stesso tempo, perché le caratteristiche che avevano prodotto il loro boom nel passato sono diventate i punti deboli che hanno portato al crac. Per non parlare della travagliata vicenda di Versace. L’ingresso di Blackstone non è sufficiente a rilanciare l’azienda che nel 2018 è stata venduta all’americano Michael Kors per circa 2 miliardi di dollari. La nuova società si chiama Capri holdings, Donatella Versace è rimasta come creative director, il marchio viene stampato su una varietà di oggetti di lusso. Si parla di un ritorno in mani italiane, ma quel che conta è la strategia per affrontare la grande trasformazione che investe tutta l’industria, anche l’intero comparto della moda. Un made in Italy chiuso nei propri confini non ha senso. Oggi ci sono due grandi mercati nei quali bisogna essere ben radicati: gli Stati Uniti e l’Asia. Ma bisogna avere una massa critica. L’eccellenza deve uscire dalle nicchie per dispiegarsi in pieno; gli italiani, splendidi artigiani, per acquisire una taglia tale da reggere alla competizione debbono entrare in un sistema più vasto.

Campioni dove?

Gli odierni campioni nazionali fanno parte della generazione nata nell’immediato dopoguerra e affermatasi dagli anni Settanta in poi. La successione è il passaggio chiave per tutti loro. Le principali imprese famigliari si stanno muovendo in modo diverso. Prendiamo le prime due nella moda. Prada ha cominciato due anni fa chiamando al vertice Andrea Guerra, il quale dovrebbe restare fino al 2025 quando Patrizio Bertelli, marito di Miuccia Prada, lascerà le redini al primogenito Lorenzo. Più complessa la soluzione per Giorgio Armani che non ha figli. Alla viglia del suo novantesimo compleanno ha spiegato a Bloomberg di aver valutato varie opzioni a cominciare dalla quotazione in Borsa. Nel 2016 ha creato una fondazione auspicando che possa assicurare nel tempo assetti stabili e indipendenza, Tuttavia, ha ammesso che “lo scenario adesso è molto diverso rispetto a quando ho iniziato”. Tutto è cambiato. Il nuovo paradigma si basa su alcuni pilastri: mercato mondiale, apertura della proprietà, quotazione in Borsa là dove il mercato dei capitali è non solo più ricco, ma più sofisticato e più articolato di quello italiano, consolidamento della filiera, ruolo sempre maggiore della componente immateriale, si pensi alla pubblicità che richiede investimenti giganteschi nei vecchi e nei nuovi media. Gli italiani potranno continuare a produrre all’ombra dei campanili cose belle, per citare Carlo Maria Cipolla, ma il rischio è che non piacciano più al mondo. Allora che fare? Sostenere campioni nazionali, salvare il salvabile, allearsi per formare campioni europei o puntare direttamente su una dimensione globale?

Si sono sprecati improperi contro gli imprenditori italiani che si sono spostati ad Amsterdam, in Lussemburgo, in Svizzera. Trattasi di Exor, Luxottica, Berlusconi, Ferrero, Barilla, Caltagirone, Pirelli, Benetton, Stefanel, Campari, solo per citarne alcuni. Sono state approvate fior di leggi per trattenerli, ma loro hanno scelto il mondo intero. Un “modello nazionale” ammesso che sia ancora possibile, è destinato a restare piccolo e fragile; dopo aver sprecato tanti quattrini dei contribuenti non si raggiungerà mai la “force de frappe” per sfidare americani e cinesi. Anche per salvare il salvabile si stanno gettando soldi nel ventilatore senza venirne a capo. E i campioni europei? Nelle alte tecnologie tagliar fuori gli americani, i giapponesi, i sud coreani è impossibile, anzi dannoso. Un’altra strada è quella imboccata già da Leonardo con joint-venture anglo-franco-americane. Nella difesa non ci sono alternative. Ci si potrebbe ispirare ad Airbus, diventato numero uno al mondo nella costruzione di aerei civili, mettendo insieme gruppi privati (Daimler e Lagardère, ad esempio) e pubblici (Francia, Germania, Spagna), oppure alla STMicrolectronis controllata dai governi italiano e francese. Ma è un’eccezione e nei semiconduttori o nell’intelligenza artificiale non sarebbe sufficiente. L’Unione europea è chiamata da Mario Draghi a compiere una scelta. L’Italia non ha mai scelto, ognuno è andato avanti per conto proprio. È arrivato il momento non di chiudere i boccaporti, ma di spiegare le vele. E qui torna il professor Cipolla. Vele oceaniche, vele per i venti alisei. E cannoni – finanziari, politici persino – di lunga gittata e grande portata. Quello che manca oggi al made in Italy.

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