La biologia prima della ragione: la propensione naturale allo scambio, secondo Paul Rubin

L’economista, evoluzionista e professore Emory University di Atlanta è deceduto lo scorso 31 agosto. Nella sua vita ha cercato di spiegare come istinti e comportamenti umani, selezionati in ambienti primitivi, influiscano ancora oggi su dinamiche sociali ed economiche. Un ricordo

In una nota alla Teoria dei sentimenti morali, Adam Smith spiega che, se “l’autoconservazione e la propagazione della specie sono i grandi fini che la Natura sembra essersi proposta nel generare tutti gli animali”, inclusi gli esseri umani, che sono “dotati di un fortissimo desiderio di quei fini”, “la scoperta dei mezzi per ottenerli non è stata affidata alle lente e incerte determinazioni della ragione”. Diciassette anni dopo, nella Ricchezza delle nazioni, Smith scriverà che la crescita della produttività dipende dalla divisione del lavoro. Nonostante i benefici che quest’ultima produce siano così straordinari, non è qualcosa che donne e uomini costruiscano con caparbia volontà. Ma è l’esito di una propensione naturale, quella a scambiare una cosa per l’altra, che tutti sembriamo avere.

Ai suoi albori la scienza economica rifletteva su propensioni, istinti e adattamenti che non sono frutto di scelte razionali ma da cui nondimeno risultano prassi e istituzioni di una società complessa. Sfortunatamente, per molto tempo, gli economisti hanno guardato altrove. Paul Rubin, deceduto il 31 agosto in Florida all’età di 86 anni, ha cercato di riannodare i fili di questa tradizione. Professore di Economia alla Emory University di Atlanta e Fellow dell’Independent Institute di Oakland, era un pensatore spericolato.

Il suo libro più famoso è Darwinian Politics. The Evolutionary Origin of Freedom (2002), tradotto in italiano dall’Istituto Bruno Leoni nel 2009. Si tratta di un saggio sistematico che discute come si sono selezionati darwinianamente, quando i nostri progenitori vivevano quasi solo di caccia e raccolta, organizzati in bande, le “propensioni” e gli “istinti” che poi si sono trascinati fino al mondo industriale. Questo approccio consente di mettere a fuoco un tema che, nelle mani di molti filosofi, tende ad avere una curvatura moralistica: cioè, come ci siamo adattati o al contrario rimaniamo disadattati a una società a divisione del lavoro complessa, e come abbiamo trasformato dei disadattamenti, come la spontanea percezione infastidita della libertà e del benessere altrui, in comportamenti funzionali per creare, in alcune e sempre poche aree geografiche, delle società più o meno aperte.

Per almeno un milione di anni i nostri antenati hanno vissuto e quindi ci siamo psicologicamente selezionati per interagire in piccoli gruppi. Il nostro è un cervello “paleolitico”: John Tooby e Leda Cosmides utilizzano l’espressione “ambiente dell’adattamento evolutivo” per riferirsi non tanto all’Africa dalla quale tutti veniamo, ma a quelle circostanze (vita in piccoli gruppi, caccia e raccolta come attività produttive) che hanno plasmato i nostri istinti morali.

All’interno di quelle bande e tra diverse bande vigeva un sostanziale egualitarismo e si effettuavano scambi a somma zero. Essi erano, nel contesto di una straordinaria incertezza, la soluzione più funzionale per la sopravvivenza. Ciò significava anche che gli individui sospettosi o invidiosi contribuivano a mantenere l’egualitarismo, controllando che non venisse accumulata ricchezza eludendo una redistribuzione o uno scambio equo delle risorse necessarie alla sopravvivenza del gruppo. La diffusione dell’agricoltura ha consentito alle società umane di evolvere verso forme di organizzazione complesse, dove grazie alla possibilità di accumulare risorse diventavano possibili giochi, ovvero scambi, a somma positiva, che per un certo periodo sono stati praticati con scarsa efficienza all’interno di una logica mercantilistica. L’avvento delle tecnologie e delle scienze moderne ha consentito il progresso organizzativo, sociale e politico per il funzionamento sempre più efficiente dell’economia di mercato e, conseguentemente, anche l’espansione della libertà umana nei paesi che progredivano economicamente.

Di questo progresso molto spesso non ci rendiamo conto. O meglio, non lo apprezziamo, oppure lo consideriamo addirittura una forma di corruzione. Più che smithiani, tendiamo a essere roussoviani: pensiamo che l’uomo sia nato libero, e invece ovunque sia in catene, e queste catene siano state forgiate dalla proprietà privata e dalle convenzioni che chiamiamo “civiltà”.

Non è un caso se undici anni dopo il libro sulla “politica secondo Darwin” Rubin scrisse un saggio brillante sulla “emporiophobia”. La tesi era che le espressioni di disgusto o spavento o contrarietà che leggiamo sul volto di così tante persone quando tiriamo in ballo il “mercato”, e che hanno importanti implicazioni politiche, dipendono in buona misura dal fatto che nelle discussioni pubbliche si ragiona di mercato per pregiudizi e non si pone mai l’accento sulla cooperazione piuttosto che sulla concorrenza. Passando in rassegna un vasto campione di testi introduttivi all’economia politica, Rubin notava che si parla di concorrenza in media otto volte più spesso che di cooperazione. Ma l’unità economica fondamentale è lo scambio, la transazione, e le transazioni sono cooperative. Le due parti decidono, volontariamente, di scambiare. Il beneficio di un’economia di mercato – l’aumento del surplus per i consumatori – deriva dalla cooperazione attraverso le transazioni. La concorrenza in un’economia di mercato è una competizione per cooperare. A vincere è chi è più bravo a cooperare con gli altri.

Per Rubin i filosofi hanno discettato a lungo sul rapporto che intercorre fra ciò che è e ciò che dovrebbe essere. Si tratta però di uno pseudo-problema, perché le preferenze umane sono il risultato dell’evoluzione biologica. Le forme di organizzazione politica sono combinazioni di tratti selezionati per soddisfare nel modo più efficace tali preferenze.

I sociologi sono stati quasi tutti refrattari a dialogare con la biologia sulla natura del comportamento politico umano. Ralf Dahrendorf, per esempio, era persuaso che “qualunque cosa il biologo possa rivelarci circa noi stessi, abbiamo la quasi consolazione che il nostro corpo non è il noi ‘reale’, che i concetti e le teorie biologiche non possono influenzare l’integrità della nostra individualità”. Gli psicologi evoluzionisti hanno introdotto l’espressione Standard Social Science Model (SSSM) per l’assunto per cui l’individuo sarebbe sempre condizionato nei suoi comportamenti. Ma culturalmente o socialmente o economicamente. Mai biologicamente. Anzi si parte dal presupposto che la biologia umana, diversamente dalla biologia di tutti gli altri animali, immetta nella società individui che vengono poi plasmati come pongo dalle circostanze ambientali.

Spesso i teorici sociali che si sono occupati di biologia lo hanno fatto con un obiettivo politico ben chiaro. Un autore classico della politica biologizzata di sinistra, come Peter Singer col suo Una sinistra darwiniana. Politica evoluzione e cooperazione (2000), legge le predisposizioni evolutive umane per tracciare la rotta verso la società “giusta” a lui cara. Per Rubin, Singer non tiene conto di come noi ci portiamo appresso anche condizionamenti che limitano la nostra capacità di apprezzare i vantaggi di un’organizzazione democratica e di un governo liberale della società.

Anziché usare la biologia come una tela per disegnare utopie, Rubin ne tiene conto per spiegare i comportamenti dell’uomo moderno. La nostra psicologia non è pre-adattata all’economia di mercato. Siamo “programmati” per pensare al bottino di caccia da distribuire, non al rendimento che il capitale finanziario ottiene trovando impieghi produttivi. Per questo istintivamente preferiamo la prospettiva di una redistribuzione della ricchezza sulla base di criteri predeterminati (la “giustizia”, l’“equità”, il “merito” …) anziché un incremento del livello assoluto di benessere.

Le società aperte e di mercato, però, esistono e non sono necessariamente spacciate – e anche questo va spiegato, al pari della nostra ostilità nei loro confronti. Una delle idee più innovative di Rubin si basa sulla teoria della selezione di gruppo. I gruppi possono funzionare come unità di selezione: i tratti individuali vantaggiosi per il gruppo, per esempio l’altruismo, possono affermarsi nel momento in cui i benefici per il gruppo sopravanzano gli svantaggi che quel tratto comporta per l’individuo nella competizione all’interno del gruppo. Su questa base Rubin spiega i vantaggi adattativi dell’aspirazione dello Homo sapiens alla libertà individuale. Rubin ha fatto uso della scoperta del primatologo Christopher Bohem, che nelle società di cacciatori-raccoglitori funzionavano anche delle “gerarchie di dominanza inversa”, per cui i maschi più deboli si organizzavano o agivano mettendo in atto strategie per ridurre il potere dei maschi dominanti e trovare quindi spazi per affermare un originario desiderio di libertà e autonomia individuale all’interno del gruppo. Siamo anche “animali coalizionali”.

L’ambiente dell’adattamento evolutivo non era propizio per comunità liberali. Le circostanze in cui i nostri progenitori vivevano erano tremendamente insicure. Pertanto, la rapidità nella decisione, le euristiche e un centro di comando unico (gerarchia di dominanza) erano importantissimi.




Situazioni simili caratterizzano il grosso della nostra permanenza su questa terra. I comportamenti selezionati in quel contesto sono talmente consolidati da venire trasmessi ereditariamente. Siamo geneticamente predisposti a voler interferire con il comportamento altrui, al punto da non renderci conto che le nostre aspirazioni a limitare la libertà altrui con l’aspettativa di ridurre i disagi sociali, in realtà ottiene l’effetto opposto. Tutt’oggi, quando si disegnano grandi piani per il futuro dell’Unione europea, la retorica è quella dell’emergenza: cioè, viene pantografata su larga scala quell’insicurezza sistemica e l’illusione che possiamo “prendere in mano il nostro destino”, che caratterizzava la vita delle comunità paleolitiche.

I bias, le euristiche, di cui tanto si parla, sono strategie cognitive per decidere più velocemente, che sono però anacronistiche in un mondo nel quale i rapporti fra individui sono in larga misura impersonali e la divisione del lavoro abbraccia un numero di persone straordinariamente elevato. Queste inclinazioni oggi sono non raramente dissonanti (sono dei mismatch) rispetto alla realtà in cui viviamo, ma per lungo tempo sono state strategie ragionevoli, anche se non razionali: in molte situazioni, scorciatoie decisionali apparentemente irrazionali, ovvero le decisioni intuitive producono risultati non meno, anzi talvolta, più efficienti dell’uso di procedure analitiche e razionali.

Anche la polarizzazione politica ha per Rubin una base biologica, amplificata dal contesto. Diverse “preferenze in materia di altruismo” si traducono in preferenze politiche differenti. I progressisti favoriscono una maggiore redistribuzione del reddito rispetto ai conservatori (che cercano di ridurre le tasse).

L’invidia sarà pure un vizio ma è importante nelle dinamiche sociali. Per Rubin, anch’essa scaturisce dal mismatch, dallo scarto fra bias che abbiamo ereditato e realtà in cui viviamo. Molti agiscono come se si trovassero ancora nel mondo paleolitico a somma zero, se io mi aggiudico un pezzo del bottino di caccia quello stesso pezzo non puoi averlo tu. La logica di un mondo a somma non zero è differente. Il quadro politico ideale gestirebbe la nostra innata tendenza all’invidia senza danneggiare la produttività della gerarchia.

Per Rubin, “se un individuo è altamente produttivo e crea ricchezza si genereranno benefici sociali e privati; un individuo produttivo normalmente non consumerà l’intero surplus che creerà. Pertanto, la massimizzazione dell’utilità o della ricchezza implicherebbe che tutti beneficeranno di tale aumento di produttività e dovrebbero incoraggiarla. Ma se la produttività aggiuntiva viene utilizzata per ottenere altre femmine, o se i gusti si sono evoluti in un ambiente in cui ciò si è verificato, di fatto tutti diventeranno meno adattati, anche se più ricchi. In questo senso, fitness e massimizzazione dell’utilità sono in conflitto. Questo può spiegare perché molte funzioni di utilità sembrano contenere elementi di invidia, anche se l’invidia è controproducente rispetto al consumo della massimizzazione della ricchezza”.

Rubin si definiva un conservatore liberal-libertario, e non nascondeva il suo orientamento quando illustrava i vantaggi adattativi dei valori religiosi o della monogamia. Per comprenderli non necessariamente bisogna aderire a un credo: non serve essere cristiani per capire che quei valori hanno tenuto assieme gruppi umani, li hanno resi più coesi e non a caso hanno avuto per risultato la selezione di certe pratiche rispetto ad altre. Questo spiega perché Rubin viene dimenticato anche da coloro che coltivano studi affini ai suoi. Ammettere che certi valori oggi démodé hanno vinto la gara evolutiva o, peggio ancora, riflettere sul fatto che se odiamo il mercato non è perché siamo razionalmente persuasi dei suoi difetti ma perché non lo capiamo, è un’eresia negli anni del politicamente corretto.

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