Quando Voltaire usò una specie di ChatGPT per diventare “filosofo inglese”

Fino a poco tempo fa si pensava che il filosofo francese avesse scritto anche la versione inglese della sua opera. In realtà ha usato John Lockman come traduttore dell’intero lavoro

Ho tradotto due volte lo stesso libro, che sono due libri diversi, scritti dalla stessa persona, che sono due persone diverse. Cotanta affermazione sibillina trova senso nella peculiare storia editoriale delle Lettere inglesi di Voltaire, incluse fra i titoli d’esordio della Silvio Berlusconi Editore. Nel 1726 Voltaire fugge da un mandato di cattura, spiccato a Parigi dopo la lite con un nobiluomo, e sbarca in Inghilterra; lì prende appunti sui costumi locali mentre s’impratichisce nella lingua del posto. Da qui germina un testo che diventerà l’opera fondante dell’Illuminismo: Voltaire la fa apparire a Londra, nel 1733, col titolo Letters concerning the English nation.

L’anno dopo, sempre a Londra, esce la versione francese, poi rimpolpata con una cinquantina di remarques contro Pascal e ristampata in Francia sotto il titolo Lettres philosophiques. E’ un rarissimo caso di opera con tre prime edizioni: abbastanza da far impazzire un filologo che cerchi di stabilirne il testo base. A complicare le cose, giunge la condanna delle Lettres philosophiques da parte del Parlamento di Parigi. Il libro viene bruciato (modo gentile per far presagire la combustione anche all’autore) e le venticinque lettere non vengono mai più raccolte finché Voltaire è vivo: finiscono sparpagliate sotto altri titoli o arbitrariamente mimetizzate nell’epistolario. Ciò causa degli eccessi di zelo negli editori postumi; nel 1792, Palissot pubblica una nuova edizione in cui le Lettres philosophiques sono diventate trentanove. Gli editori italiani si sono finora affidati alla versione stampata in Francia nel 1734, presumendo che l’originale francese fosse il più adatto a un autore nel pantheon d’oltralpe; di queste varie edizioni italiane delle Lettere filosofiche, mi era capitato di tradurne una.

L’idea di SBE è stata di proporre invece la prima traduzione dell’originale inglese, sulla base del testo stabilito da Nicholas Cronk per l’edizione della Oxford University Press. Mi sono accinto a tradurre questo nuovo libro spinto da un ulteriore motivo di fascino, causato da un colpo di scena: dopo l’uscita dell’edizione Oxford, è stato scoperto che – nel senso materiale del termine – il testo inglese non era stato scritto da Voltaire. Fino a poco tempo fa si credeva infatti che avesse scritto di suo pugno metà della versione inglese, affidando un brogliaccio francese a John Lockman affinché traducesse il resto. Nuova evidenza testuale ha invece dimostrato che Voltaire aveva scritto l’intero testo in francese, ma aveva deciso di affidarlo a Lockman in vista di una prima edizione in inglese. Perché? Voltaire riteneva che l’Inghilterra fosse la patria della libertà e il più sicuro rifugio di un intellettuale; dopo gli inizi da poeta drammatico francese, voleva esordire come filosofo libero e, per farlo, aveva bisogno di diventare un autore inglese. La sua conoscenza della lingua è ottima (l’edizione SBE ne presenta alcuni esempi) ma non abbastanza da far filare un cospicuo trattato, donde la necessità di usare Lockman come un ChatGPT da sorvegliare e indirizzare. E’ un’opera che stravolge il tradizionale concetto di autorialità, rendendo Voltaire l’equivalente di ciò che oggi potrebbe essere lo showrunner di una serie tv: responsabile e referente di un testo, su cui materialmente non mette mano. Così Voltaire, scrive Cronk, diventa un filosofo inglese. Peccato non possa godersi il trionfo. Per una storiaccia di assegni contraffatti, nel 1728 era stato costretto a tornare precipitosamente in Francia: il rischio di finire alla Bastiglia era comunque meglio della certezza di venire impiccato come falsario.

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