Federica Manzon ha vinto il Premio Campiello 2024

Con “Tutti per Alma” la scrittrice si aggiudica la 62esima edizione del concorso letterario e , parlando con il Foglio, lo dedica “a tutte le persone che hanno attraversato i confini”.

VeneziaCentouno voti sui 287 espressi dalla Giuria dei Lettori anonimi, considerati anche i 13 che non hanno espresso preferenze. “Tutti per Alma”, il romanzo pubblicato da Feltrinelli con cui Federica Manzon ha vinto ieri sera la 62esima edizione del Premio Campiello. “Sono molto contenta di questa vittoria – spiega al Foglio subito dopo le foto di rito e gli abbracci con i suoi cari tra gli applausi del pubblico del Teatro La Fenice. “Visto che è un libro nato nei confini, lo vorrei dedicare a tutte le persone che li hanno attraversati – soprattutto il confine orientale di Trieste – e che lo hanno fatto immaginando e sognando un presente migliore in un momento in cui in quella città, prima ancora che in altre parti di Europa, Schengen è stato sospeso ed è ancora così. Vorrei che questa mia piccola vittoria fosse di buon auspicio per andare in un’altra direzione e non tornare più indietro. Vincere il Campiello è un’emozione enorme perché è Venezia, è il nordest e soprattutto perché questo libro parla di questo territorio e di radici che non hanno confini”.

Il romanzo, è il racconto di un ritorno, di Alma appunto, una giornalista e una donna affermata, che torna nella sua città dopo la morte del padre, riaprendo ferite e situazioni che non sono andate come invece avrebbe voluto. Una situazione decisamente nuova per lei che le farà ripercorrere tutto ciò che è successo nella sua vita e tutto ciò che l’ha portata a vivere nel modo in cui vive adesso. A raccontare bene il tutto ci ha pensato l’autrice nelle pagine di questo libro che è “un viaggio straordinario attraverso il tempo, la memoria e la Storia”.

Nel romanzo affronta il tema delle radici anche in maniera problematica, perché le stesse non sono sempre appartenenza, ma a volte anche conflitto. Come mai?

“Perché ogni volta che vengono usate come un richiamo del sangue che permette di distinguere chi appartiene a quella stessa radice, a quel territorio, a quella lingua stabilendo che – chi non vi appartiene è fuori da tutto ciò – diventano uno strumento di conflitto. Credo, invece, che il passato e le radici debbano essere un qualcosa che si muove, non devono avere dei confini, ma andare sempre oltre. Per me è importante che l’idea di confine sia sempre qualcosa di mobile e pronto a ricrearsi”.

Il romanzo con cui ha appena vinto il Premio Campiello, è il racconto della lacerazione di una famiglia, ma soprattutto è il racconto della lacerazione della Jugoslavia. Le guerre si assomigliano tutte: secondo lei abbiamo imparato qualcosa o dobbiamo ancora imparare?

“Sicuramente ogni guerra ha il suo specifico, ma forse quello che la guerra in Jugoslavia ha mostrato in grande anticipo – anche se è stata l’ultima guerra d’Europa del Novecento – è come il sorgere dei primi nazionalismi sia qualcosa che non può che portare al conflitto tra i popoli. In Jugoslavia, esattamente come in Ucraina in tempi recenti, il richiamo al passato e la sua manipolazione per usarlo come scusa e legittimazione di nuove guerre, è stato un qualcosa che abbiamo visto nei corsi e ricorsi della Storia”.

Alma è anche un modo per scoprire la propria identità e per fare i conti con sé stessi?

“Certamente. Le identità sono sempre state una materia difficile da maneggiare. Quelle più facile per affrontarle – almeno secondo me – sono la geografia e i luoghi, non solo quelli dove siamo nati, ma anche quelli che ci siamo scelti e che adesso ci appartengono. Dobbiamo capire cosa significa nelle nostre identità l’andare e il tornare, provare nostalgia per i luoghi che ci sono lontani. C’è una frase che amo molto di uno scrittore bosniaco, Aleksandar Hemon, che dice: la mia casa è sempre quella che ho già abbandonato e che non è più a portata di mano. Una frase che credo racconti molto del nostro presente”.

A proposito di luoghi e geografia, Trieste è l’altra vera protagonista del suo romanzo, la città con gli stabilimenti balneari, i bagni e la scogliera, dove tutti sono stati “almeno una volta degli dei”. Cosa ha rappresentato e rappresenta per lei?

“Per me è stata il motore della scrittura. Quel confine che spaventa da un lato, ma dall’altro attrae. È come un richiamo dell’altrove che mi ricorda che si può avere un’altra vita possibile rispetto a quella che stiamo vivendo. C’è sempre un altrove alle porte e questo per me è il motore della scrittura. Alma è nata sul confine orientale dell’Italia, Trieste, e come quel confine tiene in sé tanti parti che non convivono sempre pacificamente”.

Lo scrittore Paolo Rumiz, nel ritirare il Premio Campiello alla Carriera, ha detto che in passato ha provato – lo citiamo – “il malessere di sentire di non servire a niente”. Lei con il suo lavoro e con la scrittura ha mai provato questa sensazione?

“Sì, e a un certo punto mi sono data una risposta con una frase di Franco Rotelli, che era uno psichiatra della Città dei Matti di Trieste, un erede di Basaglia. Qual è la cosa più importante che avete fatto con la rivoluzione? Non mi ha risposto i diritti ai malati, a non legarli più, ma portare gli artisti nei manicomi. Solo in quel modo un problema dei malati e dei medici è diventata una questione della società. Questa cosa mi ha fatto pensare che chiunque abbia un’attività creativa e artistica, ha quel tipo di responsabilità, di provare a fare arrivare alla società delle questioni che tu hai visto e interessano”.

Vedremo questo romanzo trasformato in un film?

“Per ora non ci penso, mi voglio godere questo momento. Qualcosa è cambiato e cambierà ancora”.

Gli altri finalisti: Antonio Franchini (“Il fuoco che ti porti dentro”, Marsilio), che ha ottenuto 78 voti, Emanuele Trevi (“La casa del Mago”, Ponte alle Grazie) con 66 voti, Michele Mari (“Locus Desperatus”, Giulio Einaudi editore) con 33 voti e Vanni Santoni (“Dilaga ovunque”, Editori Laterza) con 6 voti.

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