Oltre l’Antropocene con la palude del nostro immaginario da cambiare

Nell’ingorgo dell’ultimo libro di Kristupas Sabolius emerge l’importanza di entrare in rapporto con gli ambienti in cui viviamo. Senza un mutamento dell’immaginario collettivo, non c’è soluzione pratica

Ho fatto l’errore di portarmi in vacanza un libro sbagliato: “Immaginazione. Al di là dell’Antropocene” (Castelvecchi, 208 pp., 20 euro) di Kristupas Sabolius, un superprofessore di quelli che scrivono senza dare respiro al lettore e procedono per montaggio di riferimenti e citazioni bibliografiche. Dedica naturalmente all’Antropocene, teoria e problema, gran parte del suo libro, mettendo a confronto un bel mucchio di studiosi: Castoriadis, Serres, Latour, Simondon, Stengers, Barad, Viveiros de Castro, Bottici, Alloa, Danowski, Dempster e infine Haraway e qualche altro. Li metto in fila per provocare subito in chi mi sta leggendo quella certa sazietà che ho provato anch’io. Ma non bastano i nomi dei vari studiosi e professori di Antropocene e dintorni. L’altro ingorgo è ovviamente terminologico e tematico. Lo scopo di Sabolius è, come dice il sottotitolo del libro, andare “al di là dell’Antropocene”, spiegando che per affrontarne o solo individuarne i danni, c’è bisogno di un tipo di immaginazione che secondo Sabolius non abbiamo ancora. La centralità dell’immaginazione in una questione conoscitiva è in effetti l’originalità del libro. Infatti Sabolius comincia così: “Non c’è da meravigliarsi del fatto che il riscaldamento globale sia stato opportunamente etichettato come un wicked problem. Sappiamo fin troppo, non abbiamo soluzioni chiare, e agiamo troppo poco. La ricerca scientifica, pur fornendo sempre più prove degli impatti antropici sull’ambiente anche su scala planetaria, non sempre sembra smuovere la sensibilità dell’opinione pubblica e assistiamo invece al rafforzarsi di un populismo egocentrico in tutto il mondo, che fa orecchie da mercante di fronte a questa urgenza. Mentre geoscienziati, sociologi, artisti e filosofi continuano a dibattere sulla validità concettuale del termine Antropocene, l’esistenza del riscaldamento globale rischia di rimanere ancora una questione di punti di vista su cui si scontrano politici e opinionisti.”



Si può dibattere all’infinito sui concetti e sulla realtà del problema, ma le diagnosi non bastano. Se non si arriva ad agire sul comportamento del genere umano per cambiarlo adeguatamente, questo avviene perché manca un rinnovamento della nostra immaginazione. Il dibattito in corso sull’Antropocene può spingere ad agire solo se la nostra immaginazione quotidiana, secondo Sabolius, ci fa sentire in rapporto con gli ambienti in cui viviamo. Senza un mutamento dell’immaginario collettivo, non c’è soluzione pratica. E’ necessario vedere e capire che le zone critiche su cui agire sono “come la pelle viva del pianeta, lo strato sottile in cui si svolge la vita. Gli esseri umani condividono questo spazio con tutti i tipi di creature viventi, biomi, piante e alberi”.



I vari spazi o milieu in cui ognuno di noi vive hanno una priorità sia conoscitiva che pratica: “ognuno è il milieu di qualcun altro e attraverso di esso ci condizioniamo a vicenda. Non si tratta solo di un processo naturale e organico, ma in questo scambio di condizioni è presente anche la dimensione sociale”. E’ come se l’autore del libro parlasse anche contro sé stesso: concetti e teorie contano ben poco se i comportamenti sociali necessari sono inadeguati o assenti. E se questa inerzia deve trasformarsi in forme di attivismo, la cosa più necessaria è una trasformazione dell’immaginario collettivo, sociobiologico.



Non dubito che sia così. Ma se è così, le cose si complicano ancora di più. Anche perché l’immaginario apocalittico che è stato creato dalle arti e soprattutto dal cinema ha fatto dell’eventuale, augurabile coscienza collettiva uno spettacolo nel quale si entra e si esce soddisfatti e illesi. Da tempo guardiamo come spettatori un’emozionante fine del mondo vivente. La cultura di massa è già di per sé estremistica e catastrofista. A gestire la paura della fine del mondo c’è l’industria della cultura. L’individuo medio vive di immaginazioni che non si trasformano in coscienza che possa poi diventare azione, perché vengono prodotte e consumate come spettacoli.


La volenterosa e forse utile proposta conclusiva del libro di Sabolius è “l’immaginario delle paludi”, perché “le paludi costituiscono un milieu molto particolare”, cioè particolarmente adatto a dare un’idea realistica della nostra “ontologia interconnessa”. La palude è un ambiente incolto, caotico e misterioso e “la prima ricerca scientifica su una singola palude ne portò alla luce la dimensione cosmologica e perfino cosmopolitica”. Abbiamo dunque bisogno di un “ritorno della palude” cioè l’uso di un “modello artistico-scientifico ibrido, strumento che presenta la palude come un’interfaccia per Gaia”.



In parte posso anche apprezzare. Ma sono pessimista circa gli esiti pragmaticamente positivi. Proprio in quanto le paludi ci appaiono come un ambiente minaccioso, “né terra né acqua, luoghi di ansia, malinconia e miasmi”, possono anche fornire materia, come suggerisce lo stesso Sabolius, per un gioco da computer, per una mostra da Biennale di Venezia e per infinite tavole rotonde buone per convegni a cui invitare tutti gli artisti e naturalisti che si vogliono. Forse è piuttosto il nostro stesso immaginario a essere in sé una palude. Proviamo a bonificarlo, se ne siamo capaci.

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